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di
Roberto Galbiati
1
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Il 3 dicembre 1967, al Groote
Schuur Hospital di Città del Capo, in Sudafrica, un
quarantacinquenne cardiochirurgo sudafricano, Christiaan
Neethling Barnard (1922-2001), sorprese la comunità scientifica mondiale
realizzando il primo omotrapianto cardiaco: il cuore di Denise
Darvall, una giovane donna vittima di un incidente stradale,
venne trapiantato in un cardiopatico diabetico di nome Louis
Washkansky.
In realtà, alla fine degli anni '60 molti chirurghi
d'eccellenza, specialmente statunitensi, dopo anni di
sperimentazioni su animali, erano perfettamente in grado di eseguire
trapianti cardiaci sull'uomo; ciò che li bloccava erano problemi
etici e soprattutto legali: la certificazione di morte poggiava
sul tradizionale criterio di arresto irreversibile
cardiocircolatorio: non si poteva togliere un cuore battente
ad un donatore senza incorrere nel reato di omicidio volontario.
Barnard riuscì a giocare d'anticipo, forse favorito da una minor
sensibilità nazionale al problema. Il suo intervento venne accolto
molto favorevolmente dal governo sudafricano, impegnato nel
tentativo di recuperare visibilità internazionale dopo l'ostracismo
subito a causa della sua politica di apartheid. Il risultato
terapeutico in realtà non fu per niente buono: Louis Washkansky
sopravvisse solo diciotto giorni, stroncato da broncopolmonite
bilaterale.
Ma il passo era fatto. Si aprì una nuova e sconcertante
strada terapeutica: il cuore, l'organo nel quale il comune sentire
identifica la sede delle affettività e della spiritualità, poteva
essere trasferito da un individuo ad un altro e Barnard divenne una
stella internazionale. Il suo intervento resta però una pietra
miliare nella storia della medicina anche per le conseguenze che
inevitabilmente seguirono.
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Christiaan
N. Barnard |
Denise
Darvall |
Louis
Washkansky |
Per non restare «arretrato» rispetto alla
chirurgia sudafricana, il mondo scientifico aveva a disposizione due
opzioni: condannare l'espianto del cuore battente come
inammissibile sul piano morale e legale, perché mortale per
il donatore, o cambiare la definizione di morte. Si
preferì scegliere la seconda opzione che non risolse contestualmente
l'aspetto etico. Infatti, già nel mese successivo, venne istituito
alla Harvard
Medical School un comitato ad hoc al fine
di ridefinire il concetto di coma irreversibile. Il comitato terminò
il proprio lavoro in meno di sei mesi, con il risultato che venne
sostituito il concetto di morte dell'individuo secondo i classici
criteri di arresto irreversibile cardio-circolatorio, con quello
della morte di un organo: la morte cerebrale. Il lavoro venne
pubblicato in modo inconsuetamente rapido sul
numero di agosto dello
stesso anno dalla prestigiosa rivista medica JAMA. Gli autori
dichiaravano nella pubblicazione che il cambiamento dei criteri di
definizione di morte si rendevano necessari oltre che per evitare
l'accanimento terapeutico, anche per risolvere problemi di
approvvigionamento d'organi per trapianto da donatore con cuore
battente. Testualmente si affermava: «Criteri obsoleti di
definizione di morte possono portare a controversie nell'ottenere
organi a fine di trapianto». A questo punto, rotto il tabù,
il concetto di morte cerebrale conquistò prontamente tutta la
comunità scientifica internazionale creando, come ampiamente
prevedibile, una serie di problemi medico-scientifici, legati alla
corretta diagnosi ed alla corretta previsione prognostica, oltre che
legali, antropologici, filosofici, etici e religiosi. Per stabilire
se un individuo fosse morto, un tempo bastavano l'accertamento della
protratta assenza di attività cardiaca e delle conseguenti
alterazioni anatomiche: rigor mortis, chiazze ipostatiche,
iniziali segni di putrefazione tissutale.
Storicamente il medico era
chiamato, in qualità di esperto, a certificare con atto ufficiale
quello che il buon senso comune e l'esperienza della vita
consideravano essere un cadavere; egli era in altre parole un
ufficiale testimone, garante di un evento già avvenuto. Con
l'introduzione del concetto di morte cerebrale = morte
totale, i medici cambiano di ruolo. Essi certificano qualche
cosa di nuovo e di stupefacente: esistono dei cadaveri che hanno
il cuore e la circolazione perfettamente funzionante, una
efficiente funzione respiratoria, seppur supportata da
apparecchiature, normali funzioni renali ed epatiche nonché
digerenti; essi possono addirittura, se debitamente
assistiti, portare a termine delle gravidanze.
Che i
cadaveri possano mantenere tutte queste mirabili funzioni non è
solamente contrario al buon senso comune, ma ontologicamente falso.
La comunità scientifica medica ha di fatto forzato la mano al
legislatore, appropriandosi di un ruolo che non gli compete: è
passata dall'attestare
l'avvenuta morte a quello di stabilire il
momento del trapasso, utilizzando tecnicismi esoterici, nel senso di
difficilmente valutabili dai non addetti ai lavori. La morte infatti
avviene quando l'anima, spirito vitale, si distacca dal corpo.
Questo momento non può essere identificato tramite strumenti
scientifici; esso ha una dimensione trascendente, è un atto morale e
come tale non imbrigliabile da metodi e diagnostiche strumentali,
per quanto sofisticati essi siano. La Chiesa cattolica ha sempre
tenuto indebita considerazione questa impossibilità di stabilire il
preciso momento del trapasso. Basti ricordare un'importantissima
ricaduta nelle pratiche sacramentali: l'Estrema Unzione e
l'Assoluzione delle colpe, sacramenti riservati ai vivi, sono
amministrabili sub condicione sino a due ore dopo la
constatazione dell'arresto cardiocircolatorio. Ogni organo non
alimentato, seppur in tempi diversi, prima riduce e poi sospende la
propria funzione; solo successivamente, e non necessariamente in
maniera contemporanea alla sospensione funzionale, si determinano
profonde alterazioni anatomiche tali da rendere irreversibili le
funzioni e il mantenimento della vita. Nel Report di Harvard
veniva proposto che lo stato di irreversibilità dovesse essere
certificato utilizzando metodi puramente clinico-funzionali.
Dal
punto di vista concettuale, ma anche pratico, non si può ritenere
che la sola sospensione protratta di una funzione sia l'espressione
della distruzione irreversibile di un organo. In cardiologia, ad
esempio, esiste una sindrome nota con il nome di «Tako Tsubo»
2: un paziente che ha subìto un forte
stress emotivo si presenta con forte dolore toracico,
alterazioni dell'elettrocardiogramma come da infarto cardiaco acuto,
ecocardiogramma e ventricolografia che dimostrano la totale assenza
della funzione contrattile del muscolo cardiaco estesa a tutta la
sua parte apicale ed esami del sangue come da sofferenza cardiaca.
In altre parole, ci si trova di fronte ad un quadro che potrebbe
essere definito come necrosi (morte) di una estesa parte del cuore.
Sorprendentemente le coronarie (arterie che portano il nutrimento al
cuore e che si chiudono quando si ha un infarto) in questi pazienti
sono pervie. E ancora più sorprendentemente, la contrattilità
cardiaca e la forma del cuore ritornano spontaneamente perfettamente
nella norma,
anche dopo diverse settimane dall'evento acuto.
L'imbarazzo della comunità scientifica cardiologica internazionale
resta tutt'ora grande, anche perché non se ne conosce ancora la
causa. Se tale reversibilità della funzione resta inspiegata nel
cuore, organo sicuramente funzionalmente più semplice del cervello,
sorge spontaneo il dubbio di come si possa accertare la
irreversibilità funzionale del cervello, organo straordinariamente
più complesso e per la maggior parte delle sue funzioni tutt'ora
misterioso. Un altro fenomeno cardiologico che pone l'attenzione
sulla non equivalenza tra protratta assenza di funzione contrattile
cardiaca e morte cellulare (infarto) è il fenomeno dello
«stordimento» miocardico e della «ibernazione». In tali situazioni,
parti del cuore restano immobili come se fossero morte (alterata
funzione) ma le cellule rimangono vitali e possono, con opportune
terapie, essere riportate allo stato di normale funzionalità. Nel
cervello esistono analoghe alterazioni funzionali che non possono e
non devono essere considerate espressione di danno irreversibile e
che, se correttamente trattate, risultano reversibili. Si tratta
della cosiddetta «penombra ischemica» cerebrale, l'analogo
neurologico della sindrome di «Tako Tsubo» o del miocardio
stordito o ibernato. Il definire «irreversibile» una funzione
significa applicare una categoria di giudizio assoluta. Il progresso
scientifico e tecnologico nell'assistenza ai pazienti comatosi
sposta continuamente il confine della «irreversibilità» funzionale,
svuotando la definizione dalla sua presunzione assolutista. Le
diverse società scientifiche nazionali si sforzano quindi di cercare
di identificare degli strumenti da proporre come sicuramente
diagnostici di danno anatomico al quale corrisponda una
irreversibilità della funzione.
Tali criteri, seppure applicati,
sono stati sottoposti a continue modifiche, a testimonianza della
loro temporanea inadeguatezza; essi sono oltre tutto differenti nei
diversi Stati. Un dichiarato «morto cerebrale» con criteri italiani
non sarebbe «abbastanza» morto in un altro Paese. Ciò imbarazza non
poco: se non esiste un sistema comune per definire una morte, sorge
spontaneo il dubbio della inadeguatezza di qualche certificazione.
La morte di un individuo invece deve essere considerata una verità
oggettiva, certa, assoluta, da constatare con criteri univoci e
inequivocabili. Non è lecito utilizzare parametri di giudizio che si
riferiscano «allo stato attuale delle conoscenze» e che
normalmente il medico applica nelle diagnosi e alle cure delle
malattie.
È stato da sempre così per ben più banali necessità di
questioni ereditarie. La teoria che supporta il concetto della
«diagnosi di morte cerebrale = morte totale» poggia sull'idea che il
cervello sia dotato di una funzione coordinatrice globale
dell'essere vivente; persa tale caratteristica,
l'organismo è
destinato ad evolvere in una sorta di caotica e letale disincronizzazione funzionale. Che tale concetto sia erroneo è stato
dimostrato da studi osservazionali e da testimonianze di casi
clinici sopravvissuti per anni, seppur assistiti, ai criteri
diagnostici di «morte cerebrale». Qualche sostenitore della pratica
dei trapianti, pur ammettendo la vitalità del donatore, giustifica
l'espianto d'organi a cuore battente affermando che ad un «essere»
in tali condizioni non può essere riconosciuto lo status
di persona e quindi perderebbe ogni diritto. Consueto appiglio
ideologico già utilizzato in altri contenziosi bioetici (embrioni -
aborti - eutanasia). È assolutamente inconfutabile quindi che il
vero fine di queste certificazioni ha lo scopo di poter rendere
disponibili organi vivi ed integri da trapiantare. Un fine
utilitaristico quindi che, nel momento in cui l'espianto di organi
fosse effettuato da un individuo non morto, perderebbe di fatto la
sua presunta valenza umanitaria. Non si può allungare la vita ad
un uomo malato o forse migliorarne la qualità, sopprimendone
un altro. Tutto ciò sarebbe raccapricciante; evoca una sorta di
primitiva e bestiale depredazione fatta a danno delle persone più
indifese. Una specie di «rottamazione» dell'essere
umano. Vi sono inoltre altre questioni che devono essere
considerate non solo sotto il profilo strettamente tecnico. La
domanda è: una vittima di incidente con trauma cerebrale che risulta
essere candidato ad espianto d'organi è curato dall'inizio alla fine
con il massimo delle risorse scientifiche a disposizione per
cercarne il recupero o è semplicemente tenuto in osservazione in
quanto raro candidato all'espianto? La risposta ufficiale non può
che essere una: è stato fatto tutto il possibile. E allora
facciamoci qualche ulteriore domanda di verifica:
-
Questi pazienti sono stati
sottoposti ad ipotermia precoce, pratica che è in grado di
favorire il recupero di funzioni in penombra ischemica, o a
terapie ormonali appropriate?
-
Come mai in alcuni Stati, Italia
compresa, viene applicato, quale criterio di giudizio di morte
cerebrale, il test dell'apnea (sospensione del supporto
ventilatorio assistito per diversi minuti, stando a vedere se vi
è spontanea ripresa della funzione respiratoria) che provoca un
grave insulto cerebrale, potenzialmente in grado di distruggere
un encefalo in penombra ischemica?
-
Come può un cadavere portare a
termine, seppur assistito tecnicamente, una gravidanza?
-
Un paziente a cui è stata
certificata la «morte cerebrale», che mantiene la ossigenazione
corporea tramite assistenza ventilatoria meccanica e che, se
venisse sospeso il supporto assistenziale ventilatorio,
probabilmente in un tempo più o meno breve andrebbe incontro ad
arresto cardiaco irreversibile, non sarebbe meglio definibile
come moribondo?
-
L'uomo è titolare di uno stato di
diritto; la certificazione della morte è un atto medico che
stabilisce il cessare di tale stato; esso deve solo certificare
la non-vita. È lecito certificare una non-vita e quindi il
cessare di uno stato di diritto tramite una certificazione,
peraltro di discusso valore, dell'irreversibilità funzionale di
un organo?
-
Ammesso e non concesso che un
paziente sia realmente in coma irreversibile, la morte cerebrale
è veramente la morte dell'essere umano?
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A lato:
Carina Melchior, la ventenne danese che, nel 2011, si è
risvegliata dopo tre giorni di coma, poco prima che i medici
dell'Aarhus Hospital di Copenaghen la sottoponessero
ad espianto di organi. |
Dal punto di vista della legge, viene
considerato donatore chiunque non abbia espresso intenzione di non
esserlo; un consenso in tal caso «obbligatoriamente tacito», visto
lo stato di coma, che trovo ingiusto e opportunista. Molte persone
che non hanno mai neppure preso in considerazione il problema
vengono legalmente identificate come disponibili. E vero che prima
dell'espianto viene fatto firmare un consenso informato ai parenti,
spesso in condizioni di grave confusione emozionale. Ma con quale
diritto un parente decide della vita di un congiunto e con che tipo
di informazione? Il parente è morto o è moribondo?
L'uso del
termine «morte» riferito al cervello è chiaramente strumentale:
evoca l'idea che quell'individuo è realmente morto. Il sostenere che
«non c'è più niente da fare» e che il paziente è moribondo
bloccherebbe di fatto la possibilità legale di espiantare gli
organi. La pratica degli espianti verrebbe vissuta con tutt'altra
consapevolezza nella popolazione e negli operatori sanitari. I
parenti probabilmente non si sentirebbero in grado, giustamente, di
prendersi questa grande responsabilità. Se il paziente è moribondo
non può essere espiantato. Si commetterebbe un omicidio. È
chiaro che l'abolizione della pratica di espianto da individui
dichiarati «cerebralmente morti» toglie una opzione terapeutica ad
alcuni pazienti, oltre che notorietà e immagine ad alcuni chirurghi.
Ma non è lecito commettere un'azione immorale per un fine
intenzionalmente buono. Il togliere validità all'equivalenza
morte cerebrale = morte totale, implica per gli «espiantatori»
l'automatica accusa di omicidio volontario premeditato e il
coinvolgimento di una vasta ed eterogenea popolazione di
collaboratori più o meno consapevoli, considerabili come complici.
Si rende necessario quindi fare chiarezza etica sulla cosiddetta
diagnosi di «morte cerebrale» finalizzata ai trapianti. In ciò, il
magistero della Chiesa cattolica post-conciliare, anche grazie ad un
linguaggio tutt'altro che definitorio, non ci aiuta molto.
Nel 2005,
la Pontificia Accademia delle Scienze si trovò d'accordo nel
ritenere che la sola morte cerebrale non è la morte dell'individuo e
che il criterio di morte cerebrale, privo di attendibilità
scientifica, dovesse essere abbandonato. Il Vescovo
Mons