di Charles-Edmond Rouleau 1
Prefazione
Quando il programma scolastico di Storia, delle scuole medie o superiori, approda alla fatidica «questione romana», presenta l'esistenza dello Stato pontificio come un insormontabile ostacolo all'unificazione d'Italia. Il potere temporale dei Papi viene proposto allo studente come un antico retaggio dei secoli bui, una sorta di nefasta conseguenza dell'odiato «cesaro-papismo», un'inammissibile ingerenza di un potere che per sua natura dovrebbe essere puramente spirituale 2; per farla breve, come un abuso cui si doveva al più presto porre riparazione.
Dal canto loro, i cosiddetti «cattolici liberali» 3, smaniosi di piacere al mondo, hanno applaudito questa riparazione presentandola come la liberazione da un pesante fardello che impediva ai Sommi Pontefici di esercitare in tutta libertà il loro ministero. In realtà, come dimostra splendidamente questo scritto, i nemici della Chiesa - i liberali, le Società Segrete, e soprattutto la sètta massonica - volevano privare il Papato di qualsiasi sostegno materiale in vista della sua definitiva scomparsa che si pretendeva imminente 4. Il Papato non scomparve e non verrà mai meno fino alla fine del mondo come ha promesso Cristo:
«Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam».
E tuttavia, la sparizione dello Stato della Chiesa (ridotto simbolicamente alla sola Città del Vaticano), causò enormi difficoltà materiali e spirituali alla Chiesa e divise gli animi degli italiani. Di fronte all'usurpazione dei suoi diritti, nel 1874, Pio IX invitò i cattolici a non partecipare alle elezioni politiche (il famoso «non expedit») 5. Tale frattura, che vide il Papa prigioniero in San Pietro per molti decenni, venne parzialmente risanata con i Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929 che ristabilirono i rapporti tra Stato e Chiesa, che ripararono parte dei torti subiti da quest'ultima e le permisero di riprendere l'apostolato in tutta libertà. Ma ormai il male era fatto e le sue ineluttabili conseguenze iniziarono a farsi sentire.
Lentamente, una terra profondamente cristiana come quella italiana, divenne sempre più laica e sempre più ispirata ai principî liberali introdotti dagli invasori piemontesi 6, nemici dei diritti di Dio e della Chiesa sui singoli e sulla società. Oggi, i frutti mortiferi di questa mentalità atea, uscita dalle Logge, sono sotto i nostri occhi. Cose impensabili anche per un liberale del XIX secolo, come l'aborto, il divorzio o l'eutanasia, oggi sono una tragica realtà. Le pagine che seguono narrano la storia (assente sui manuali scolastici) di migliaia di giovani che sul finire dell'epoca risorgimentale abbandonarono le loro famiglie e partirono da tutto il mondo 7 per andare a difendere dall'invasore lo Stato pontificio e l'augusta persona del Papa.
Il loro sacrificio è una tra le tante pagine di Storia rimaste nell'ombra o messe volutamente in secondo piano. La loro devozione alla Santa Sede in un momento così tragico rimane una preziosa testimonianza di fede per la posterità. Certo, per i cattolici di oggi è difficile anche solo concepire lo spirito che animò i soldati del Papa Re. Una falsa e irenistica nozione di pace (il pacifismo) e l'orrore per l'uso della forza (anche a scopo di difesa) sono così penetrati nella nostra cultura che, nonostante la dottrina della Chiesa ammetta ancora l'uso delle armi in caso di guerra giusta, le gesta degli zuavi pontifici potrebbero apparire incomprensibili anche 8. Tuttavia, il messaggio che questi eroi dimenticati ci hanno lasciato, scritto con il loro sangue, è che esiste una causa per cui è doveroso morire e, se necessario, uccidere; ed è la causa della Chiesa cattolica e del Vicario di Cristo in terra.
Introduzione
Nel 1848, la Rivoluzione che già minacciava di scalzare l'ordine sociale alla sua base, si scatenò contro Roma. Il 15 novembre, il conte Pellegrino Rossi (1787-1848), valoroso sostegno del Papato e Primo Ministro del Governo pontificio, cadde sotto il pugnale degli adepti della Carboneria, una Società Segreta italiana.
Sopra: assassinio di Pellegrino Rossi.
L'indomani, una folla furiosa, aizzata da Giuseppe Mazzini (1805-1872) 9, assediò il palazzo del Quirinale, dove Pio IX (1792-1878) si era rifugiato per sfuggire alla spada degli assassini. La tempesta crebbe di intensità; si tentò di incendiare il Quirinale.
Le pallottole piovevano; una di esse penetrò nella camera dove il Papa pregava per i suoi boia, e ferì mortalmente S. E. Mons. Giovanni Battista Palma (1791-1848). Il Sommo Pontefice credette fosse giunta la sua ultima ora, quando una donna coraggiosa, la contessa Teresa de Spaur (1814-1873), ideò con suo marito, il duca de Harcourt (1786-1865), il progetto di salvare il Re di Roma.
L'eroina mise in pratica il suo piano, e la sera del 24, Pio IX, travestito, salì sulla carrozza del duca de Harcourt, che lo trasportò a Gaeta, nel Regno di Napoli, dove venne ricevuto a braccia aperte dal re Ferdinando II di Borbone (1810-1859).
Durante il suo esilio, il Santo Padre non smise di protestare contro le spoliazioni fatte dalla Rivoluzione. Lanciò la scomunica contro i membri della Giovane Italia e contro i rivoluzionari che devastavano Roma, saccheggiavano le chiese e cacciavano i religiosi dai loro monasteri. L'iniquità era passata sulla Città Santa come un torrente devastatore 10. Mazzini spinse l'empietà e il cinismo fino a parodiare il Papa salendo sul balcone della Basilica di San Pietro, dove il Romano Pontefice impartisce la benedizione Urbi et Orbi («alla città e al mondo»).
Sopra: 4 luglio 1849; proclamazione della Repubblica Romana.
Alla fine, l'Europa si ribellò davanti a tanta audacia e a tanti sacrilegi. La Spagna si offrì per liberare Roma dal giogo dei vandali del 1848. L'Austria occupò Ferrara. I napoletani oltrepassarono la frontiera e penetrarono fino a Velletri, a dieci chilometri da Roma. Mazzini, capo dei rivoluzionari, voleva tener testa all'Europa. Improvvisamente, la Francia si risvegliò e fece sbarcare delle truppe a Civitavecchia, il 25 aprile 1849. Napoleone III (1808-1873) occupò militarmente un punto dell'Italia, «per garantire l'integrità del Piemonte e per salvaguardare gli interessi della Francia».
Ma i cattolici della figlia primogenita della Chiesa chiesero al presidente della repubblica di ristabilire il Papa sul suo trono e di continuare a proteggerlo contro i rivoluzionari. Il Generale Charles Oudinot (1767-1847) ricevette allora l'ordine di marciare su Roma, dove giunse il 30 aprile. Avendo l'Esercito francese subito un insuccesso, il Generale chiese dei rinforzi che arrivarono solamente nel mese di giugno. Il 22 dello stesso mese, l'Esercito francese si lanciò in un primo assalto.
Il 29, il Generale Oudinot si impossessò dell'antica città dei Cesari, e il Colonnello Adolphe Niel (1802-1869) venne incaricato di portare le chiavi di Roma a Pio IX, che nel frattempo si trovava a Portici. Il Sommo Pontefice, colmo di gioia, riprese, alcuni mesi più tardi, la strada per Roma, nella quale fece la sua entrata trionfale il 12 aprile 1850.
Il suo ritorno venne salutato da alcune salve di artiglieria, dal suono di tutte le campane della città e al grido di «viva Pio IX! Viva il nostro Santo Padre»! Il popolo romano era all'apice della felicità. Una volta cacciati i rivoluzionari da Roma, la Chiesa continuò a governare il mondo cattolico con la sua ordinaria sollecitudine, spargendo ovunque i benefici della sua ardente carità.
L'occupazione di Roma da parte dell'Esercito francese procurò al Papato un'era apparente di pace e di tranquillità che durò fino nel 1859, quando Vittorio Emanuele II (1820-1878) annesse la Romagna al Piemonte, pur protestando la sua fedeltà e la sua devozione alla Santa Sede, l'ipocrita! Si comportò come un bambino che, per provare il suo amore e il suo affetto all'autore dei suoi giorni, gli toglie una parte dei suoi beni. La Francia, governata allora da Napoleone III, permise questo furto senza far sentire nessuna protesta.
Disse uno scrittore francese:
Bisognava dunque conoscere i sentimenti del Generale Louis Christophe Leon Juchault La Moricière (1806-1865). Pio IX incaricò di questa delicata missione Claude-François-Philibert Tircuy de Corcelles (1802-1892), ambasciatore francese a Roma dal 1849, e amico devoto del Papato. Nel mese di ottobre del 1859, il messaggero papale incontrò il Generale a Parigi e gli chiese, nel corso di una conversazione, ciò che pensava del comando dell'Esercito del Papa ed egli rispose: «Penso che sia una causa per la quale sarei felice di morire».
Questa nobile risposta venne comunicata subito al Sommo Pontefice, il cui cuore fu ripieno di gioia al pensiero di avere presto alla testa della sua piccola armata il più grande guerriero dei tempi moderni. Mons. Frédéric-François-Xavier Ghislain de Mérode (1820-1874), ex capitano belga che aveva servito nello Stato Maggiore di La Moricière in Africa, ricevette l'ordine di andare a chiedere immediatamente e ufficialmente l'aiuto della spada del nuovo Bayard 11 francese.
Egli giunse il 3 marzo 1860 al castello di Prouzel, dove portò a termine la missione che aveva ricevuto da Pio IX. Il Generale rispose all'inviato del Papa: «Quando un padre chiama suo figlio per difenderlo, non c'è che una cosa da fare: andarci». Anche la signora de La Moricière, una donna cristiana e coraggiosa, rispose a de Mérode: «Non si discute la chiamata di un padre». Il Generale de La Moricière fece in fretta i suoi preparativi di viaggio e partì, il 19 marzo, per la città dei Papi, dove giunse la notte del 2 aprile. Sua Santità Pio IX gli affidò il comando in capo dell'Esercito papale e la fondazione del Reggimento degli zuavi pontifici.
Castelfidardo, 18 settembre 1860
Nel 1859, Vittorio Emanuele II aveva sottratto la Romagna agli Stati della Chiesa; ma la Rivoluzione non era ancora soddisfatta (l'inferno non è mai sazio). Essa spinse più lontano il re ladrone sulla via dell’iniquità: ora voleva le Marche e l'Umbria. Vittorio Emanuele si arrese al suo desiderio e scrisse al Santo Padre chiedendogli di cedere al Piemonte le sue due più belle province, e ciò, naturalmente, per il maggior bene della Chiesa! Che impostore!
Egli giunse persino a protestare il suo attaccamento alla Chiesa e a chiedere al Papa la benedizione apostolica. Alcuni giorni più tardi, nel settembre del 1860, senza nessuna dichiarazione di guerra, l'Esercito piemontese, sotto il comando del Generale Enrico Cialdini (1813-1892), invase il territorio della Chiesa. Ecco l'ordine del giorno che il Generale piemontese inviò alle sue truppe prima di superare la frontiera:
Cialdini, il tuo nome figurerà sempre nella Storia imparziale, non coperto di gloria e di onore, ma di vergogna e di obbrobrio. Ecco un esempio delle invettive e delle infamie di cui i difensori del Papa furono oggetto da parte dei corifei della Rivoluzione o dei principali dignitari delle Logge massoniche. Il Generale de La Moricière che, come abbiamo detto, aveva appena organizzato il piccolo Esercito pontificio, con il concorso di Mons. Mérode, si affrettò ad affrontare i piemontesi che incontrò vicino a Castelfidardo, l'8 settembre.
Il celebre Generale francese fu raggiunto dal Generale Georges de Pimodan (1822-1860) alla testa di 2.000 soldati, fatto che portò l'effettivo dell'Esercito del Papa a 5.000 uomini. Cialdini comandava 45.000 soldati. Malgrado questa enorme disparità nella forza numerica dei due eserciti, de La Moricière non esitò a far fronte all'invasore. La piccola divisione comandata da Pimodan, nella quale figurava con onore il corpo di 300 franco-belgi, che più tardi divenne il Reggimento degli zuavi pontifici, si distinse per i prodigi di valore.
Per tre ore, questo pugno di coraggiosi tenne in scacco un'intera divisione piemontese, barricandosi nella fattoria Crocette, che aveva strappato al nemico con la punta della baionetta. Prima del combattimento, questi valorosi difensori del Papato si erano confessati e avevano ricevuto la santa Comunione. Possedevano Dio nel loro cuore. Il campo di battaglia fu ricoperto dal loro sangue generoso e puro. Tra questi illustri martiri della fede, ci fu il Generale Pimodan e da 100 a 150 franco-belgi.
Sopra: la battaglia di Castelfidardo.
Prima del combattimento, il valoroso Capitano francese si era accontentato di dire agli zuavi: «Ricordatevi che siete cattolici e francesi». Egli ricevette tre ferite, colpo su colpo, e ad ogni pallottola che gli entrava in corpo, ripeteva: «Dio è con noi». Morì all'indomani. Apprendendo il glorioso trapasso di suo marito, la signora de Pimodan, che era rimasta in Francia, prese il suo unico figlio tra le braccia e lo coprì di baci dicendogli: «Anche tu farai il soldato del Papa». Non c'è che l'amore cristiano che possa alleare in questo modo la sublimità all'eroismo.
Schiacciato dal numero e ridotto dalla defezione di due battaglioni di cacciatori e del primo squadrone di dragoni che furono presi dal panico, malgrado gli sforzi dei Colonnelli Joseph Eugéne Allet (1814-1878), Cropt e del Maggiore Vittorio Odescalchi, il piccolo Esercito pontificio dovette battere in ritirata. Circa 400 uomini, guidati da de La Moricière, ripiegarono su Ancona.
I franco-belgi e il resto della truppa papale si rifugiarono a Loreto, dove avrebbero dovuto deporre le armi la sera stessa, dopo avere preso l'impegno di non servire nell'Esercito del Papa che per un anno e di tornare nel loro Paese. I franco-belgi si rifiutarono di sottoscrivere a questo impegno e fuggirono sulle montagne; parecchi di essi riuscirono raggiungere Ancona con l'aiuto delle tenebre.
Castelfidardo! Se da una parte ci fai tornare alla memoria tristissimi ricordi, dall'altra ci rammenti il nome di un grande Capitano che ha stupito i suoi superiori per le sue valorose prodezze, e colpito d'ammirazione l'Esercito di Cialdini. Questo Capitano - tutti lo conoscono - è il barone Athanase de Charette (1832-1911) 12, che siamo stati così felici di ospitare all'epoca della celebrazione della nostra festa nazionale, nel 1882.
Mentre le pallottole piovevano e le granate solcavano l'aria in ogni direzione seminando il terrore e la morte sul campo di battaglia, il Capitano de Charette, del corpo dei franco-belgi, incoraggiava i suoi soldati con la parola e con l'esempio. La sua spada non smetteva di colpire, e tutti i fendenti che portava erano mortali. Anziché indietreggiare davanti al numero preponderante del nemico, avanzava sempre, finché si trovò di fronte alla bandiera dell'Esercito avversario.
Fermatosi, lanciò uno sguardo di sfida e di sdegno sui suoi avversari, e li invitò a misurarsi con lui, ma nessuno si mosse. Brandì la sua spada con collera e trattò i piemontesi da vigliacchi e da codardi. Quest'ultima apostrofe produsse il suo effetto. Un ufficiale piemontese, di nome Tromboni, uscì dai ranghi e accettò il combattimento. I due Eserciti si fermarono per un momento per contemplare i due atleti. Le spade si incrociarono, e due volte Tromboni venne toccato e ferito gravemente. Charette non ricevette nessuna ferita. Esclamò il vinto: «Capitano vi consegno la mia spada». Disse Charette ai suoi zuavi: «È mio prigioniero. Abbiatene molta cura».
I franco-belgi e gli zuavi, ubriachi di gioia, acclamarono il loro Capitano e lo portarono in trionfo. I piemontesi curvarono la testa per la vergogna e la rabbia. Cialdini schiumò di rabbia. Il combattimento riprese più accanito e più sanguinoso. Malgrado le sue prodezze, il corpo dei franco-belgi venne quasi annientato, e Charette ricevette due pallottole in corpo. Era la fine di questa cruenta tragedia.
Sopra: le truppe pontificie si comunicano prima della battaglia.
Il barone de Charette aveva appena mostrato ciò che era sempre stato: un eroe senza paura e senza macchia; ma non fu l'ultima volta che l'armata pontificia poté ammirare il suo coraggio e le sue gloriose prodezze. Ecco come si batte un soldato che ama il suo Dio e il Papa. Ancona, difesa da circa 5.200 soldati pontifici e assediata da 45.000 uomini, 400 bocche da fuoco e una flotta armata con cannoni a lunga gittata, capitolò il 28 settembre, dopo un assedio di dieci giorni e di assalti mortali rinnovati senza tregua.
Fu col più crudele dolore che il Generale de La Moricière diede l'ordine di inalberare la bandiera bianca sulla cittadella; lo si può capire dalle seguenti parole del Maggiore Théodore de Quatrebarbes (1803-1871), governatore della città:
Sì, Quatrebarbes aveva ragione ad usare l'espressione «perfidia» parlando della Francia; perché la figlia primogenita della Chiesa, trascinata sulla via dell'iniquità e del tradimento dall'imperatore Napoleone III, abbandonò il successore di San Pietro al furore dei suoi nemici e lasciò consumare la trama ordita alcuni giorni prima dal re d'Italia e dall'imperatore dei francesi. La storia ce ne fornisce alcune prove incontestabili. L'11 settembre, il console di Francia ad Ancona, ricevette da Antoine-Alfred-Agénor duca di Gramont (1819-1880), ambasciatore a Roma, il seguente dispaccio:
Mai uomo ha voltato gabbana con tanta spigliatezza come l'imperatore Napoleone III. Difatti, la verità non tardò ad emergere. Dopo avere preso conoscenza di questo dispaccio, Quatrebarbes diede l'ordine ad un impiegato del consolato francese di andare a comunicare questo importante documento al Generale Cialdini, Comandante in capo dell'Esercito piemontese, e di pregarlo di cessare le ostilità. Rispose Cialdini all'inviato francese: «Calmatevi. Quindici giorni fa abbiamo incontrato il vostro imperatore a Chambéry, e sappiamo cosa fare».
Questa confessione del Generale Cialdini non lascia alcun dubbio sulle disposizioni dell'imperatore dei francesi a riguardo del capo della Chiesa cattolica. Come Giuda l'aveva venduto al re di Sardegna. Del resto, i documenti ufficiali, pubblicati dal governo francese, provano che Napoleone III incontrò Cialdini a Chambéry e che l'autorizzò ad invadere gli Stati della Chiesa dicendogli: «Fate in fretta a schiacciare de La Moricière prima che abbia il tempo di organizzare l'Esercito pontificio».
Fu conformemente a questo infame complotto che venne deciso l'agguato di Castelfidardo. Per salvare le apparenze e conservare l'amicizia dei cattolici francesi, Napoleone finse di esercitare una falsa protezione su Roma, e a questo scopo diede l'ordine di inviargli dei rinforzi, ma solamente dopo che de La Moricière, suo nemico personale, fosse stato vinto e messo nell'impossibilità di nuocergli nel compimento dei suoi progetti anticristiani.
Sapendo che tutti questi attentati non avrebbero mancato di risvegliare l'opinione pubblica in Francia e di attirare dei rimproveri ben meritati, Napoleone III fece ricorso al raggiro per dissimulare la sua complicità con i rivoluzionari e gli spoliatori degli Stati Pontifici: nel momento stesso in cui i piemontesi mettevano piede in territorio papale, egli partì per l'Algeria, dove voleva fondare un regno arabo. E alcuni giorni più tardi, l'iniquità venne consumata. Fu in presenza di tutti questi fatti incontestabili ed incontestati che il celebre Cardinale Louis-François-Desiré-Edouard Pie (1815-1880), Vescovo di Poitiers, esclamò un giorno, parlando dell'imperatore dei francesi: «Lavati le mani, Pilato»!
Ma, non dimentichiamolo, la divina Provvidenza non lascia mai il crimine impunito. Infatti, dieci anni dopo, Napoleone III fu fatto prigioniero a Sedan e andò a morire in terra straniera, mentre la Francia perdeva l'Alsazia e la Lorena. Il traditore è scomparso, mentre il Papato vive ancora e vivrà fino alla fine dei secoli. Permetteteci di citare alcune parole che il Generale Charette de la Contrie pronunciò parlando della battaglia di Castelfidardo, nel 1885, alle nozze d'argento del nostro Reggimento:
Il primo pensiero del de Generale La Moricière, prendendo il comando dell'Esercito pontificio, fu di formare un corpo di fanteria leggera simile ai suoi cari zuavi d'Africa. Questo corpo venne costituito il 1º giugno 1860 e prese il nome di «esploratori pontifici», o piuttosto di «volontari franco-belgi». Louis Aimé Becdelièvre (1826-1871), Capitano dei Cacciatori appiedati, ne divenne il Comandante, e il barone de Charette, il Capitano.
L'effettivo di questa truppa d'élite, alla battaglia di Castelfidardo, ammontava a circa trecento uomini. Il 6 ottobre dello stesso anno, Becdelièvre venne promosso al grado di Tenente Colonnello. A quel tempo, il battaglione comprendeva sei compagnie. Il 1º gennaio 1861, il corpo prese ufficialmente il nome di «zuavi pontifici». Hypolit de Moncuit de Boiscuille (1828-1902) e de Charette ebbero l'onore di indossare per primi l'uniforme degli zuavi che venne scelta da Pio IX, dal Generale de La Moricière e da Mons. Mérode.
Becdelièvre diede le dimissioni il 21 marzo 1861, e ritornò in Francia. Venne sostituito come Tenente Colonnello da Joseph Eugéne Allet, uno degli eroi di Castelfidardo. Il Capitano Charette venne promosso al grado di Comandante. Nel mese seguente (agosto), il battaglione venne portato ad otto compagnie. Uno dei soldati di Becdelièvre annunciò il congedo del suo Colonnello nei seguenti termini:
Nel 1865, apparve ufficiale l'annuncio del ritiro delle truppe francesi da Roma. Ancora una volta, la figlia primogenita della Chiesa abbandonava il Papato al furore dei rivoluzionari e delle Società Segrete. A questa allarmante notizia, il Generale de La Moricière decise di partire immediatamente per la Città Eterna e di mettersi di nuovo alla testa del piccolo Esercito pontificio che si era affinato e fortificato. Certi corpi stranieri su cui non si poteva contare, erano ritornati nei loro rispettivi Paesi.
La piccola truppa degli zuavi pontifici aveva visto il suo effettivo giungere alla cifra di 1.500 uomini, sotto la direzione del Colonnello Allet e del Tenente Colonnello Charette. La gendarmeria formava un magnifico corpo di 4.500-5.000 soldati regolari e devoti alla Santa Sede. Con i dragoni e i cacciatori appiedati, l'Esercito pontificio formava un totale di 10.000 uomini perfettamente addestrati.
Sopra: ufficiale degli zuavi pontifici.
È di questa truppa scelta che il Generale de La Moricière si preparava a riprendere il comando, quando la morte venne a toglierlo improvvisamente all'affetto dei suoi e al servizio della Chiesa cattolica. Durante gli anni di pace che il Papato ha attraversato tra il 1862 e il 1867, ci si è spesso posti la seguente domanda: «Che cosa fanno gli zuavi del Papa a Roma»? Troviamo la risposta a questo interrogativo in un discorso che Pio IX inviò ai nostri ufficiali il 27 dicembre 1865:
Per «portare la spada per la giustizia e per la verità, per la dignità e la libertà del genere umano» e «camminare davanti a Dio» a testa alta, gli zuavi si preparavano a combattere le buone battaglie; facevano le manovre tutti i giorni, compivano delle marce forzate, simulavano delle battaglie, si accostavano, in una parola, all'arte militare, pur montando la guardia vicino al trono del Papa e pregando per i nemici della Chiesa. Gli zuavi crebbero così nella considerazione e nella stima dei cattolici: rendevano il bene per il male, praticando la carità cristiana verso coloro che vedevano la loro presenza di cattivo occhio.
L'invasione garibaldina
Il 15 settembre 1864, Napoleone III firmò una convenzione tra la Francia e l'Italia in virtù della quale l'imperatore dei francesi si impegnava a ritirare le sue truppe degli Stati Pontifici entro due anni, a patto che il Piemonte rispettasse il territorio della Santa Sede e non si opponesse all'organizzazione di un Esercito papale. Ciò equivaleva a consegnare il Papato prima di tutto nelle mani dei rivoluzionari, e secondariamente in quelle di Vittorio Emanuele II, come la Storia dimostrò in seguito.
Significava servirsi nuovamente della politica di raggiro inaugurata nel 1859. Era il regno delle brame d'Italia che si annunciava a breve scadenza. Infatti, il governo del Piemonte tendeva segretamente la mano a Giuseppe Garibaldi (1807-1882) 14, il capo dei rivoluzionari, pur protestando la sua devozione alla Santa Sede. Pio IX fece sentire la sua voce per denunciare la violazione del Trattato del 1864 e le flagranti ingiustizie di cui era oggetto.
I cattolici di Francia tentarono, ma invano, di ottenere dall'imperatore una dilazione al ritiro delle sue truppe: la nostra antica madrepatria doveva continuare a scendere nell'abisso scavato dalla politica nefasta e anticristiana di Napoleone III. Alla fine dell’anno 1866, l'iniquità venne consumata: le truppe francesi lasciarono Roma. Alla loro partenza, Sua Santità Pio IX inviò loro queste ammirevoli parole:
Non incontrando più ostacoli alla loro ambizione, alla loro cupidigia e alla loro rabbia, le bande garibaldine si avventarono, nel 1867, sul territorio pontificio; saccheggiarono i villaggi e le casse municipali, profanarono i conventi e i santuari, e dilapidarono gli abitanti. Gli zuavi e i carabinieri si opposero alle loro scorrerie e li respinsero fino alla frontiera. I garibaldini passarono attraverso le truppe italiane che erano incaricate, in apparenza, di badare alla sicurezza degli Stati della Chiesa, ma che chiudevano gli occhi sui fatti e sui gesti dei rivoluzionari, i quali penetravano liberamente nel Piemonte per andare a reclutare degli uomini e a cercare delle munizioni che erano loro fornite dallo stesso governo di Vittorio Emanuele II.
La Storia ci fornisce alcune prove inconfutabili della complicità delle autorità italiane. Il teatro delle ostilità che vide in azione le bande garibaldine comprendeva tutta la provincia di Viterbo. Come si vede, si trattava di un vasto campo di battaglia. Per fare fronte al pericolo, gli zuavi pontifici e la gendarmeria papale furono costretti a dividersi in piccoli distaccamenti e a sostare in tutti i luoghi minacciati. Malgrado la sua inferiorità numerica, l'Esercito pontificio venne applaudito per i suoi brillanti fatti d'arme ad Acquapendente, a Bagnorea, a Nerola, a Farnese, a Valentano, a Monte Libretti e in quindici altre città o villaggi.
A Nerola, il Tenente Colonnello Charette sconfisse i garibaldini che erano tre volte più numerosi degli zuavi; anche se il suo cavallo fu ucciso, egli catturò diciotto prigionieri. A Farnese, il Sottotenente Étienne Dufournel trovò la morte, il 19 ottobre, nelle seguenti circostanze. Partì alle undici del mattino da Valentano per cacciare trecento garibaldini che si erano impossessati di Farnese; aveva solamente venti zuavi ai suoi ordini. Il Capitano di linea Sparacanna lo seguiva con una trentina dei suoi uomini.
Sopra: la morte del sottotenente étienne Dufournel, ucciso dai garibaldini a Farnese.
Arrivando ad un chilometro da Farnese, la piccola guarnigione pontificia fu improvvisamente raggiunta da colpi di fucile, partiti da una grande casa occupata dai garibaldini. Il Sottotenente Dufournel estrasse allora la sua sciabola e con la lama si fece il segno della croce dicendo: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, avanti»! E si lanciò seguito dai suoi zuavi. I garibaldini non poterono resistere a questo assalto impetuoso; essi abbandonano la casa di cui si erano impossessati e fuggirono.
Gli zuavi si installarono nella stessa casa per deliberare, ma furono subito attaccati da un corpo di duecento garibaldini. Étienne Dufournel diede l'ordine di aprire la porta ed esclamò: «Cacciamoli alla baionetta». E si precipitò colpendo con la sua sciabola un garibaldino che era vicino alla porta; ma il colpo fu così violento che la lama si ruppe in due e gli sfuggì dalle mani. I garibaldini si gettarono su di lui e lo trafissero con quattordici colpi di baionetta. Tutto sembrava perduto per gli zuavi; ma non lo era affatto. Ferdinand de Charette (1837-1917), uno dei fratelli del nostro Tenente Colonnello, e alcuni altri zuavi accorsero in aiuto del loro ufficiale e aprirono una grande breccia tra i garibaldini che si diedero alla fuga.
Il valoroso Sottotenente Dufournel, mortalmente ferito, fu trasportato immediatamente a Valentano, dove spirò l'indomani ringraziando Dio di avergli procurato la felicità di morire per la sua santa madre, la Chiesa cattolica. Questa triste notizia venne telegrafata a suo fratello Adéodat Dufournel , a quel tempo Capitano Aiutante Maggiore nella guarnigione di Roma. Il beneamato fratello arrivò la sera stessa a Valentano; prosternò il suo volto sulla bara e diede l'ordine di mandare a Roma le spoglie mortali del suo caro fratello.
Dieci giorni più tardi, Adéodat rimase ferito durante l'attacco di Villa Crecchina, a Roma, e morì il 5 novembre. La mattina del suo trapasso, Adéodat aveva assistito alla santa Messa, dedicata alla confessione di San Pietro, celebrata da uno dei nostri cappellani, Padre de Gerlache. Finita la Messa, il sacerdote Gerlache si girò e trovò lo zuavo con la faccia a terra e gli chiese la causa dello sfavillio di tutta la sua figura: «Caro Padre, ho chiesto alla Santa Vergine la grazia di morire per la Chiesa». Questa grazia gli fu accordata la sera stessa. Ecco ciò che ci ha raccontato a proposito di Adéodat Dufournel, Clisson, che era accanto a lui quando cadde colpito da una pallottola in pieno petto:
Trasportato all'ospedale, Adéodat Dufournel rese la sua anima a Dio il 5 novembre. Étienne Dufournel aveva ventisette anni, e Adéodat ne aveva ventinove. I loro corpi riposano nel cimitero di San Lorenzo fuori le mura. Comprendendo l’immenso dolore che avrebbe provato il padre dei Dufournel in presenza di questi due tragici lutti, molto vicini l'uno all'altro, il nostro Santo Padre Pio IX gli scrisse per consolarlo: «Mi avete dato due soldati; vi rendo due santi».
Queste parole del successore di San Pietro valgono da sole più di tutti gli elogi che potremmo fare a questi due gloriosi martiri della fede. A Monte Libretti, il Tenente Arthur Guillemin (1838-1867) diede un'altra prova di valore e di eroismo degli zuavi.
Milleduecento garibaldini occupavano questa fortezza, costruita su di una montagna e dominante la strada. Guillemin, con i suoi novanta zuavi, non esitò a scalare la montagna nel bel mezzo di una grandine di pallottole e tentò di strappare alla baionetta questa cittadella chiusa e difesa da un nemico potente in numero, comandato da Menotti Garibaldi (1840-1903), figlio del famoso masnadiero.
Gli zuavi non riuscirono a forzare le porte, ma i garibaldini, spaventati da tanto coraggio e da tanta audacia, evacuarono la cittadella durante la notte e fuggirono davanti ai soldati del Papa. Nel mezzo della mischia, Guillemin cadde per non più rialzarsi: Dio voleva una vittima pura. Questo valoroso era maturo per il cielo; infatti, quella mattina aveva detto al cappellano: «Mi confesserei volentieri, ma non ho niente sulla coscienza».
Questo eroe cristiano non aveva paura della morte. Quali prodigi ha compiuto questo piccolo pugno di soldati del Papa durante questo assalto omicida! Ad esempio, il caporale Pieter Jong (1842-1867) si gettò in mezzo ai garibaldini e, senza ricevere il più piccolo graffio, ne uccise e ferì quattordici. Morto di stanchezza, si gettò in ginocchio e aspettò la morte con calma, come i martiri del Colosseo. I garibaldini, furiosi come demoni, lo crivellarono di colpi di baionetta.
Questo giovanotto scrisse un giorno a sua madre:
Potremmo citare una folla di altri episodi simili, ma queste citazioni ritarderebbero inutilmente il nostro racconto storico. Diciamo inutilmente, perché possediamo la testimonianza di Pio IX e degli ufficiali di parecchi eserciti d'Europa sulle gloriose prodezze degli zuavi pontifici da Castelfidardo fino al loro congedo.
La battaglia di Mentana
Mentre accadevano queste cose, Garibaldi, l'eremita rivoluzionario di Caprera, partì dalla sua isola, situata di fronte a Napoli, e si recò a Firenze. Lì, alla testa di 10.000 avventurieri e soldati, piombò come un uragano, il 3 novembre, su Mentana, una cittadina di circa 1.000 anime, a venti chilometri a Nord-Est di Roma. Un fatto storico importante si ricollega a questa borgata: è lì che l'illustre Carlo Magno (742-814) si incontrò con Papa San Leone III (150-216), quando l'Imperatore dei franchi si recò a Roma, nell'anno 800, per ricevere la corona imperiale.
Sopra: Carlo Magno incoronato imperatore da Papa San Leone III.
È bene che gli stranieri che visitano la Città Eterna vadano a Mentana per vedere il campo di battaglia dove l'armata pontificia ottenne, il 3 novembre 1867, una brillante vittoria su Garibaldi, il portastendardo dei rivoluzionari e delle Società Segrete, il Generale in capo del battaglione o del reggimento delle camicie rosse. All'avvicinarsi di questo implacabile nemico del Papato e della Chiesa cattolica, Roma tremò.
La popolazione era talmente terrificata che, apprendendo questa allarmante notizia, si preparò a fuggire verso le montagne. Un lutto universale avvolgeva la città dei sette colli. Il timore aveva raggelato il sangue nelle vene dei più intrepidi. Le chiese traboccavano di fedeli che imploravano la protezione dell'Altissimo. Dovunque, ad ogni angolo di strada e nei posti pubblici, si udivano gemiti e singhiozzi. Ancora alcune ore e Roma, e il Padre comune dei fedeli, sarebbero caduti nelle mani dei rivoluzionari, di un uomo senza cuore e senza onore.
Quali mali stavano per piombare sulla città dei Papi! Ma, consoliamoci; l'augusto vegliardo del Vaticano aveva pregato per la Chiesa e il Cielo aveva esaudito la sua preghiera. Pio IX benedisse il suo piccolo, ma valoroso Esercito, e gli impartì l'ordine di andare a combattere. Gli zuavi volarono a Mentana, fecero a pezzi le bande garibaldine e ritornano in Roma coperti di allori e di ferite.
Sopra: la battaglia di Mentana.
La Chiesa aveva appena aggiunto una nuova pagina eroica alla sua gloriosa storia, e, per la prima volta, il Canada aveva annaffiato con il suo sangue il suolo romano nella persona di Hugh Murray (1836-1874), del Quebec (che nello scontro perse una gamba), e di Alfred LaRocque (1845-1905), di Montreal, entrambi decorati con la Croce di Pio IX per il loro coraggio. Oggi dormono il loro ultimo sonno, prima sulla terra di Spagna e successivamente nel cimitero d'Onore alla nazionalità franco-canadese!
Il combattimento durò cinque ore. Garibaldi, molto più codardo che valoroso, si diede alla fuga durante la battaglia, lasciando le sue camicie rosse al loro triste destino. Vedendosi contorniato dagli zuavi, egli saltò sul suo cavallo e galoppò verso Monte Rotondo dicendo ai suoi ufficiali di raggiungerlo in quella città. Ma il fuggiasco usò talmente tanto gli speroni che il suo cavallo strinse il morso ai denti e non si fermò col suo cavallerizzo, beninteso, che quando ebbe superato la frontiera del Piemonte.
Gli ufficiali garibaldini tornarono a Monte Rotondo, seguendo l'ordine del loro Generale; ma, come abbiamo appena visto, il triste sire se l'era data a gambe. Apprendendo la fuga di questo «eroe», i vincitori e i vinti esclamarono: «Il Generale "mostrala-schiena" è scomparso». Fu Monte Rotondo che inventò questo nomignolo, e, bisogna confessarlo, è molto appropriato. Abbiamo raccontato sommariamente la battaglia di Mentana; ma non crediate che la vittoria sia stata guadagnata tanto velocemente e così facilmente. No, la lotta fu accanita e cruenta. Parecchi zuavi morirono vittime della loro devozione alla causa della Chiesa, e un gran numero di altri rimasero più o meno gravemente feriti.
La piccola truppa degli zuavi comprendeva solamente 3.000 uomini, mentre i garibaldini - come abbiamo già detto - erano circa 10.000. Dunque, la lotta era impari. Inoltre, il nemico occupava la città, stando al riparo dei vitigni e delle colline che cingono Mentana; la sua posizione era eccellente, mentre gli zuavi pontifici si trovavano in aperta campagna, non avendo altra difesa che il loro coraggio e la loro bravura, stimolati dal valoroso Tenente Colonnello Charette. Ecco l'eroe di Castelfidardo! Durante questa battaglia, il futuro Generale Charette si comportò come un degno figlio della Vandea.
Sopra: Charette incita i suoi uomini durante la battaglia di Mentana.
I garibaldini avevano stabilito il loro quartier generale nella vigna Santucci, a due passi da Mentana, ed era là che avevano concentrato il grosso del loro esercito. Questa vigna era cinta da un muro di mattoni. Era dunque un vero fortino per il nemico. Approfittando delle irregolarità del terreno, gli zuavi erano giunti ad un centinaio di passi da questa fortezza e si erano nascosti dietro i piccoli alberi disseminati qua e là, anche se sotto il fuoco nutrito degli esploratori. Charette capì che l'avanzata non era abbastanza rapida. Comandò dunque una carica alla baionetta.
Gli zuavi si lanciarono in avanti come leoni furiosi; accolti da una grandine di pallottole, essi si fermarono ed esitarono in presenza di un così grande pericolo; ma non persero il coraggio. Gli zuavi non hanno mai dato questo triste spettacolo. Le pallottole continuavano di cadere fitte come mosche e cominciavano ad aprire dei vuoti nei ranghi pontifici. Charette comprese subito qual'era la situazione. Un solo momento di esitazione poteva far perdere la battaglia ed essere la causa della completa rovina dell'Esercito del Papa. Egli esclamò: «Avanti gli zuavi o mi faccio uccidere senza di voi».
E, agitando con la punta della sua spada un berretto rosso di un capo garibaldino che aveva appena messo fuori combattimento, si precipitò sul nemico. Le sue parole e il suo esempio elettrizzarono gli zuavi che si avventarono a passo di carica sulla vigna Santucci, balzando come cervi nella foresta. Niente poté resistere al loro slancio impetuoso: nulla fermò la loro veemente marcia; era come un torrente che rovescia tutto al suo passaggio.
Con un balzo arrivarono alla porta. Una nuova pioggia di pallottole inondò l'Esercito pontificio. Il Tenente Colonnello Charette e gli zuavi risposero gridando: «Viva il Papa! Viva Pio IX»! Superarono il muro, si avventarono sui garibaldini e li cacciarono a colpi di calcio di fucile e di sciabola. Diverse centinaia di garibaldini caddero per non rialzarsi più. Parecchie camicie rosse deposero le armi, si gettarono in ginocchio e chiesero clemenza gridando: «Viva Pio IX», e maledicendo il mostro di Caprera.
Con lo stesso slancio, gli zuavi, sempre guidati da Charette, penetrarono in Mentana e misero in rotta il resto dell'Esercito di Garibaldi. I rivoluzionari, misero le ali ai piedi e riguadagnarono la frontiera. Grazie ad un colpo di sublime audacia, il barone de Charette decise le sorti della battaglia e salvò Roma dal dominio sèttario. Questo autentico soldato cristiano diede così l'esempio di un coraggio da eroe e si distinse per atti degni degli antichi crociati. Egli solo poté battersi da prode, perché non temeva la morte.
Il Colonnello Allet non si mostrò meno coraggioso del suo Tenente Colonnello, anche se era meno focoso di lui; il suo sangue freddo eccitava l'ammirazione di tutti gli zuavi. Le pallottole non gli facevano curvare la testa. Ecco un episodio di coraggio che viene a sostegno della nostra tesi. Durante la battaglia, «papà» Allet - come lo chiamavamo nel Reggimento - stava davanti e un po' a lato del suo esercito e seguiva le diverse peripezie della mischia, pur fumando tranquillamente un sigaro, quando vide un garibaldino che lo prese di mira.
Senza lasciar trapelare la seppur minima emozione, il Colonnello Allet lo guardò mirare. Il garibaldino fece fuoco e... il Colonnello non ricevette alcuna ferita. Allora, voltandosi verso gli zuavi, Allet disse ridendo: «Oh! Che stupido! Mi prende di mira, tira e non mi uccide. Dammi la tua carabina», aggiunse rivolgendosi ad uno zuavo. Il nostro valoroso Colonnello imbracciò la carabina, mirò al garibaldino, aprì il fuoco e il soldato con la camicia rossa cadde morto stecchito.
Sopra: bandiera pontificia.
Poi disse riconsegnando l'arma che aveva chiesto in prestito: «Tieni. È così che si mira nell'Esercito pontificio». Un tale sangue freddo e un tale coraggio non hanno bisogno di commenti. Furono gli zuavi pontifici, e non i soldati dell'Esercito francese, come oggi si insegna falsamente nei libri di Storia, che hanno sconfitto i garibaldini in quella giornata memorabile. Ecco, a questo proposito, la testimonianza di un francese presente a questa battaglia:
Sopra: un esemplare del fucile chassepot.
Certo! Lungi da noi il pensiero di sminuire il ruolo dell'Esercito francese e di togliergli la più piccola briciola di gloria acquistata. Ma è bene far appassire l'ingiustizia di coloro che si ostinano ad attribuirgli tutto l'onore di quella giornata. La bandiera francese fu come una minaccia sul campo di battaglia e gettò lo spavento nel cuore dei garibaldini; la sua presenza tenne lontani i battaglioni piemontesi accampati ad una dozzina di chilometri dal campo di battaglia: infine, grazie alle abili manovre eseguite dai francesi nei dintorni di Monte Rotondo e nella pianura, i rinforzi nemici vennero intercettati. Ma, ancora una volta, tutte le posizioni nemiche erano già state travolte quando i francesi giunsero per prendere parte attiva alla lotta.
Il 20 settembre 1870
Nel 1860, all'indomani dell'invasione della Romagna, Charles de Montalembert (1810-1870) 15 scrisse:
È la stessa commedia che venne messa in scena nel 1870. Il conte Gustavo Ponza di San Martino (1810-1876) si incaricò di recitare il primo atto portando una lettera al Papa, un monumento di ipocrisia:
La diffamazione venne consumata da un re; ma fu respinta con indignazione da un altro Re. Pio IX rispose a Ponza, dopo avere preso conoscenza di queste sfrontate menzogne e di queste pretese espressioni di devozione alla Chiesa:
Dopo che Ponza aveva commentato favorevolmente la lettera di Vittorio Emanuele II, il Papa gli replicò:
Dunque, il conte Ponza si trovò in presenza di una smentita formale. Quando Pio IX congedò il «commissario generale degli Stati romani», gli disse: «Posso cedere alla violenza, ma aderire all'ingiustizia... mai»! Il conte Ponza di San Martino era giunto a Roma il 9 settembre; partì l'11 settembre con la seguente lettera che Pio IX inviò a Vittorio Emanuele II, il «re galantuomo».
Ecco come parla il Re diffamato, ed è così che si conclude il primo atto della commedia. Passiamo ora al secondo atto, vale a dire all'usurpazione. Lo stesso giorno in cui il conte Ponza di San Martino lasciò Roma, le truppe piemontesi superarono la frontiera romana e si impossessarono di Bagnorea e di Montefiascone (Viterbo), che gli zuavi avevano evacuato alcuni istanti prima.
L'invasione era iniziata, e ciò senza alcuna ragione e senza nessuna dichiarazione di guerra. Più che di invasione, si dovrebbe parlare di furto di territorio. Vittorio Emanuele II rappresenta il leone della favola: «Mi chiamo leone; di conseguenza, mi impossesso del regno del Papa». E il nuovo Giuda inviò il Luogotenente Generale Raffaele Cadorna (1815-1897) ad eseguire i suoi iniqui ordini. Cadorna penetrò allora negli Stati della Chiesa con cinque divisioni e una riserva, formando tre corpi d'armata. Le forze piemontesi si ripartivano nel modo seguente: ottanta battaglioni di fanteria, diciassette plotoni di bersaglieri; centoquattordici pezzi d'artiglieria, cinque compagnie da traino e una compagnia del genio pontieri.
L'effettivo dell'Esercito era di 81.478 uomini. Avendo tre divisioni al suo comando, Cadorna si avvicinò di lato alle Legazioni e alla Sabina. Il Generale Nino Bixio (1821-1873) 16, alla sua destra, con la 2ª divisione, minacciava le frontiere dal lato della Toscana, e il Generale Diego Angioletti (1822-1905), alla sinistra, lasciò il regno di Napoli con il 3º corpo d'armata.
Prima ancora di avvertire il Papa, l'Esercito piemontese aveva preso posizione alla frontiera; il 7 settembre, Bixio aveva il suo quartier generale ad Orvieto; Cadorna a Rieti; il Generale Gustavo Mazé de la Roche (1824-1886) a Terni; il Genarale Annibale Ferrero (1839-1902) a Narni.
Angioletti a Cassino. Mentre questi diversi corpi d'armata si avvicinavano a Roma, una flotta di dodici navi da guerra, comandate dall'Ammiraglio Del Carretto, si diresse verso il porto di Civitavecchia. Questa era la posizione dell'Esercito piemontese all'inizio dell'invasione. Roma era dunque circondata da tutte parti. Quali mezzi o quali forze aveva Pio IX a sua disposizione per difendere un territorio di 241 chilometri di lunghezza e 72 chilometri di larghezza? 13.684 uomini - cifra ufficiale - disseminati nelle cinque province romane (Velletri, Frosinone, Viterbo, Civitavecchia e Comarca).
Numerosi battaglioni si trovavano a Roma per proteggere il Santo Padre. Difendere cinque province, con un pugno di soldati, contro tre corpi d'armata, sarebbe stata una follia e un sacrificio inutile di vite. Anche il Generale Hermann Kanzler (1827-1888), pro-ministro svizzero dell'Esercito, diede l'ordine di abbandonare le province all'avvicinarsi del nemico e di convergere su Roma, pur lasciando ai comandanti la libertà di opporre un'«onorevole resistenza».
Come vedremo nel corso di questo racconto, quest'ordine venne puntualmente eseguito. Il ritiro degli zuavi dalla provincia di Viterbo, sotto la direzione del Tenente Colonnello Charette, è stata una delle prodezze più gloriose e più ardite compiute dal nostro reggimento. Ne faremo dunque una narrazione più fedele possibile, poggiando sulla testimonianza dei nostri compagni della 6ª compagnia del 4º battaglione cui abbiamo avuto l'onore di appartenere, e su quello del conte de Beaufort, testimone oculare del furto commesso da Vittorio Emanuele II.
Come abbiamo detto precedentemente, l'11 settembre, Bixio, l'ex Tenente di Garibaldi, si impossessò subito di Bagnorea. Questa città era difesa solamente da venti zuavi comandati dal Tenente Baudouin Kervyn. Quest'ultimo, avvertito alle tre da un dispaccio di Capraccia che il nemico si stava avvicinando, decise di ripiegare su Montefiascone; ma, ingannato da un falso rapporto, ritardò la sua partenza e, sorpreso dai piemontesi, fu fatto prigioniero con il suo distaccamento.
Racconta il de Beaufort, che Kervyn e la truppa vennero poi condotti per tutt'Italia, esposti ai peggiori trattamenti inferti dai loro vincitori e in balia degli insulti del popolo vigliacco. I piemontesi salirono a Montefiascone credendo di sorprendere gli zuavi; ma il Comandante Hervé de Saisy (1833-1904), che aveva ricevuto, la vigilia, l'ordine di ripiegare su Viterbo con le sue due compagnie di zuavi, «all'ultimo minuto e senza combattere», lasciò questa città alle dieci di sera mentre l'Esercito piemontese penetrò in Montefiascone da una porta opposta, e giunse a Viterbo la stessa notte, senza incontrare il nemico durante la ritirata.
Del resto, de Saisy aveva preso le sue misure per proteggere la sua piccola colonna fiancheggiandola con degli esploratori. L'arrivo di queste due compagnie di zuavi a Viterbo venne salutato al grido di «Viva Pio IX»! Bixio trascorse la notte a Montefiascone. L'indomani mattina, tolse il campo, e, per tagliare la ritirata a Charette e ai suoi zuavi, che in quel momento si trovavano a Viterbo, anziché marciare su quest'ultima città, prese una strada a destra e si diresse su Civitavecchia per la via di Toscanella e di Corneto, lasciando un battaglione dietro di lui, per circondare il piccolo esercito pontificio comandato dal nostro valoroso Tenente Colonnello.
Il barone de Charette, che era stato informato del passo del conte Ponza di San Martino, aveva avvertito tutti gli avamposti di tenersi pronti a ripiegare in caso di attacco; e tutti i distaccamenti avevano ubbidito ai suoi ordini. I duemila uomini scaglionati nella provincia di Viterbo, erano dunque riuniti sotto il comando dell'eroe di Mentana. Ma quale decisione prendere in questa situazione pericolosa? Combattere o ritirarsi? Non c'era via d'uscita. Dopo avere riflettuto a lungo, Charette decise di arretrare. Per eseguire questa audace manovra, Charette non aveva più la scelta delle strade.
Cadorna doveva necessariamente bloccare la via più diretta: quella di Ronciglione e di Monterosi. Non restava dunque che quella di Civitavecchia per Vetralla; era come percorrere la base di un triangolo di cui Roma occupava il vertice. Ma bisognava passare da là per non cadere nelle mani del nemico e privare così Roma dell'élite delle sue truppe. Dopo aver preso questa decisione, Charette si preparò alla ritirata. Ma per non dare l'idea di fuggire davanti all'Esercito piemontese e lasciargli il campo libero, prese la risoluzione di fortificarsi a Viterbo e di aspettare Bixio.
Il 12, alle sette di mattina, le barricate e gli altri lavori di fortificazione erano terminati. In una parola, la città era stata messa in stato di difesa. Charette, collocato nell'osservatorio costruito in cima alla torre della caserma, esaminò i movimenti del nemico, che si era accampato sulle alture di Montefiascone e a Bagnorea, situati a destra di Montefiascone e a circa dodici chilometri da Viterbo. Verso le dieci e mezza, il Comandante degli zuavi vide una colonna piemontese togliere il campo e dirigersi verso Toscanella e Carcanello allo scopo evidente di tagliare la strada di Corneto, e un'altra colonna marciare su Viterbo.
Allo stesso tempo, alcuni contadini giunsero a Viterbo e avvertirono Charette che due colonne del corpo di Cadorna si avvicinavano dalla parte di Orte e di Soriano. Non erano passati alcuni minuti che gli zuavi videro distintamente il nemico sulla strada di Ronciglione. Non era più possibile ritardare la partenza senza essere completamente investiti. Charette riunì allora il suo consiglio di guerra, ed era risolto ad evacuare immediatamente Viterbo. Alcuni ordini furono impartiti agli ufficiali, e le truppe pontificie abbandonarono Viterbo e si ritirarono nella tenuta Polidori, a tre chilometri da questa città.
Gli abitanti salutarono la loro partenza al grido di: «Coraggio, zuavi! Coraggio, zuavi! Coraggio, figli! Coraggio, figli»! Ecco un'altra smentita alla lettera di Vittorio Emanuele II. Tutta la piccola truppa pontificia si riunì alla tenuta Polidori, eccetto alcune vedette e dodici uomini posti di guardia alla stazione della città che erano stati fatti prigionieri, in quanto l'ordine di ripiegare era stato mal compreso. Il Tenente Colonnello Charette diede l'ordine di marciare in avanti. Le truppe pontificie presero la strada di Vetralla dove arrivarono alle sei di sera.
Due ore prima di raggiungere questa cittadina, alcuni cavallerizzi piemontesi avevano raggiunto la truppa del Papa; ma furono obbligati a fare dietro front vedendo l'atteggiamento minaccioso degli zuavi. Il 13 settembre, alle sei del mattino, la piccola truppa pontificia lasciò Vetralla e si diresse, nonostante il caldo soffocante, verso la cittadina di Monte Romano, dove fece la sua entrata alle dieci, in mezzo alle acclamazioni della popolazione. Charette accordò alcune ore di riposo ai suoi soldati prima di dare inizio alla celebre ritirata di Viterbo propriamente detta.
Gli uomini cadevano dalla stanchezza; una sete divorante li bruciava. E tuttavia erano ancora pieni di coraggio. Di tanto in tanto, li si sentiva gridare: «Viva Pio IX»! Dopo avere recuperate le loro forze, gli zuavi si misero in marcia per andare a Civitavecchia; ma la strada che conduce da Monte Romano a Corneto, da cui dovevano passare, era già stata occupata dai piemontesi. Cosa decise Charette per uscire da questo vicolo cieco? Per rispondere a questa domanda, lasciamo la parola a Beaufort:
I giorni seguenti furono dedicati ai preparativi di difesa. Quasi tutto l'Esercito pontificio aveva potuto raggiungere Roma. Alcuni distaccamenti isolati, ma poco numerosi, erano stati fatti prigionieri. I soldati pontifici erano in assetto di battaglia, intorno a Roma, e vicino alle mura. Il 20 settembre, l'Esercito piemontese circondò la Città Eterna in un cerchio di fuoco. Il Generale Cadorna aveva disposto l'11ª e la 12ª divisione e la riserva a Nord-Est della città, di fronte a Porta Pia e alla Salaria; Ferrero si trovava ad Est, vicino a Porta Maggiore; Angioletti doveva attaccare da Sud, verso Porta Latina, e Bixio era incaricato di schierarsi di fronte a Trastevere.
Alle cinque e dieci, la prima cannonata fu tirata dal nemico, e una palla colpì il muro a destra di Porta Pia. Era il segnale dell'attacco. Presto la sparatoria divenne generale. I piemontesi vennero falciati, mentre i pontifici ebbero solamente perdite insignificanti. Malgrado l'attiva e coraggiosa difesa degli assediati, l'Esercito nemico praticò una breccia nelle mura che rasentano Porta Pia.
Sopra: l'artiglieria piemontese spara sulle mura di Roma.
Per tre volte i piemontesi tentarono di penetrare in Roma da questa breccia, ma ad ogni attacco i bersaglieri, i migliori soldati delle truppe assedianti, vennero respinti dagli zuavi che eseguirono degli assalti alla baionetta più che brillanti. Il Generale Kanzler inviò un rapporto al Santo Padre su ciò che stava accadendo a Porta Pia.
Sopra: la breccia di Porta Pia.
Il Papa, onde evitare un ulteriore spargimento di sangue, inalberò la bandiera bianca alle dieci e dieci minuti. L'Esercito pontificio ubbidì al successore di San Pietro; cessò il combattimento e si diresse verso la città leonina. Roma capitolò e cadde nelle mani del Piemonte. Non vi parleremo delle scene disgustose e indegne messe in atto da un popolo civilizzato che ebbero luogo dopo la capitolazione.
Sopra: i bersaglieri entrano attraverso la breccia nella Città Eterna. Il sacrilegio è compiuto.
I piemontesi hanno mancato a tutte le leggi dell'onore e si sono comportati come i barbari dei primi secoli della Chiesa. Le nostre perdite, in quella giornata - gloriosa per i soldati del Papa - ammontarono a sedici morti e a cinquantotto feriti; quelle del nemico superarono le mille unità, tra morti e feriti. Un scrittore tedesco ha potuto affermare:
Ritorniamo indietro di alcune ore e vediamo ciò che fece Pio IX mentre i piemontesi bombardavano Roma. Dopo aver detto Messa alle sette e mezza, ed essere restato in preghiera fin verso le nove, il Papa passò nella sua biblioteca particolare, dove erano riuniti i diciassette membri del corpo diplomatico.
Pio IX disse alcune parole agli ambasciatori, ma la sua voce fu intervallata da singhiozzi. Ecco alcune delle sue toccanti parole:
Dopo avere fatto inalberare la bandiera della pace, Sua Santità disse agli ambasciatori:
Quindi, il Papa Re congedò i membri del corpo diplomatico; piangeva come un bambino. La capitolazione venne firmata il 20, e l'indomani, il 21, il Generale Kanzler annunciò il congedo dell'armata pontificia nei seguenti termini:
Anche il Colonnello Allet inviò alcune parole di addio ai suoi cari zuavi. L'ora della separazione era arrivata. Accade allora una scena che i soldati del Papa non dimenticheranno mai. Tutti i difensori del Papato avrebbero desiderato vedere ancora una volta il loro beneamato Padre, ma questo favore stava per essere rifiutato - poiché l'ordine di mettersi in marcia era già stato dato - quando tutto ad un tratto una finestra del Vaticano si aprì, e si vide apparire il vero Re di Roma. Sollevando il braccio verso il cielo, Pio IX impartì loro la benedizione solenne: «Benedictio Dei omnipotentis...».
Il grido di «Viva Pio IX» eruppe da tutti i petti. Gli zuavi erano ricolmi di gioia e di felicità: alcuni lanciarono i loro cappelli in aria, mentre altri presentarono le armi. Dai balconi delle residenze che cingono piazza San Pietro, migliaia di persone ripetevano: «Viva il nostro Santo Padre! Viva il Papa! Viva Pio IX, il nostro Re»! Era troppo per il cuore del Sommo Pontefice.
Soccombendo all'emozione che lo soffocava, cadde tramortito tra le braccia di quelli che lo circondavano. La finestra si chiuse e i soldati pontifici presero la strada del loro rispettivo Paese, versando abbondanti lacrime sulla sorte dell'augusto prigioniero del Vaticano. I francesi furono raccolti a bordo di una fregata francese, l'Orénoque, nel porto di Civitavecchia. Il Comandante Léon Briot (1827-1876) li ricevette con i più grandi riguardi.
Scrive il Capitano Jacquemont:
Il dramma era dunque finito. Pio IX, il Re legittimo, venne privato della sua corona, e Vittorio Emanuele, il re usurpatore, si installò a Roma, nel Palazzo del Quirinale che apparteneva al Papa.
Sopra: il Quirinale, oggi residenza del presidente della repubblica, ma un tempo Palazzo Apostolico.
APPENDICE
Sopra: la tomba di uno zuavo pontificio nel cimitero del Verano a Roma.
|