titolo mamma perché ci hai uccisi?

Una mamma a tutte le mamme

 

ultima modifica: 20 aprile 2015

 

mamma disperata

 

Nihil obstat
Catanæ 16 Januarii 1956
Can. Dominicus Squillaci
Cens. Eccl.


Imprimatur
Catanæ 17 Januarii 1956
Can. Nicolaus Ciancio
Vic. Gen.

 

INTERROGATIVI

Realtà?
Telepatia?
Allucinazione?
Trauma psichico da rimorso?
Una delle tante vie della grazia?
Forse un po' di tutto questo.
Comunque, la vicenda qui narrata pone l'accento
su un angoscioso problema: l'aborto.

 

Allo scadere preciso di dieci anni, il termine fissato dalla persona che mi affidò questa sua ultima volontà, mi accingo a compiere il mio mandato con la stessa trepi­dazione con cui lo accettai in una gelida serata di dicembre del 1945. Per ragioni assai ovvie, che non provengono soltanto da una comprensibile delicatezza, sono costretto a tacere ogni esatta ubicazione ed ogni accenno che possa far individuare le persone che s'incontrano nei fatti che verranno qui riferiti.



                                                    Padre Domenico Mondrone s.j.

 

Presentazione

Definire «impressionante» questo documento non è esagerato. Impressionante e provvidenziale. Una donna che ha acceso e poi spento con l'aborto la vita di sette figli, tormentata dal rimorso che l'ha folgorata in maniera «strana» e inaspettata, decide di riparare come può, al male che aborto con prostaglandineha fatto, raccontando la storia drammatica della sua vita e delle sue colpe perché altre mamme non ripetano il suo peccato. Una testimonianza quanto mai necessaria in questo tempo senza Dio, in cui a dichiarare guerra alla vita nascente non è più solo il singolo, che lo fà di nascosto perché consapevole di compiere qualcosa di grave, ma è la stessa «Legge». Una «Legge» che non è più per l'uomo, ma è contro l'uomo, perché si è fatta assassina e ladra. Assassina... perché uccide, e ladra ... perché lo fà con i soldi che ruba ai contribuenti per dare ad altri cittadini la possibilità di uccidere «gratis» i loro figli. L'aborto oggi non è più, come poteva essere in passato, un «incidente di percorso» e qualcosa di cui vergognarsi. Oggi il «massacro degli innocenti» è programmato, finanziato e glorificato come un segno e una conquista di civiltà. A differenza di quanto avviene per altri reati, per i quali si può sperare giustizia dallo Stato, nel caso dell'aborto non c'è autorità umana, non c'è legge umana da cui si possa sperare giustizia. L'autorità e la legge degli uomini non sono estranee al problema, non sono al di sopra, non sono fuori, ma sono ormai ferocemente schierate contro la vita nascente. è la più vigliacca e diabolica delle ingiustizie. Una «civiltà» sozza e ipocrita, la nostra, che fà leggi in difesa degli animali e poi programma, con altre leggi, lo sterminio dell'uomo. Una «civiltà» violenta e impazzita, che si scandalizza per la pena di morte inflitta a persone colpevoli di crimini mostruosi e non si vergogna di condannare a morte milioni di innocenti.

 

Una «civiltà» cieca e incosciente, che non sa più da dove viene e dove va e che, nella sua stoltezza «interessata», sbandiera come progresso la peggior forma di barbarie. Una «civiltà» selvaggia e indemoniata, non più consapevole che è proprio l'ingiustizia dell'uomo, soprattutto quando è programmata e ostinata, a costringere Dio a far ricorso alla Sua giustizia. Una «civiltà» rincretinita e ribelle, che calpesta Le parole del Signore: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre» (Is 5, 20).

 

Ma confesso che più che lo zelo fanatico e assassino di chi si è battuto per l'aborto, mi scandalizza l'assonnata indifferenza del mondo cattolico che, nella quasi totalità, a partire dai suoi Pastori, pur condannando l'aborto, non ha trovato nulla da ridire sul tradimento di quei seifeto decapitato politici «cattolici» che hanno firmato la «strage degli innocenti» tramutandola in legge. Anzi, di quei sei «cristiani assassini» (Leone, Andreotti, Anselmi, Morlino, Pandolfi e Bonifacio), cinque sono stati ancora «premiati» da chi ha permesso loro di continuar a pescar voti e consensi all'interno di associazioni e movimenti «cattolici» e in alcune curie vescovili, in non poche canoniche e in non pochi conventi di tutta Italia. Non fà certo onore alla comunità cristiana il non aver voluto smascherare quei traditori che, pur dicendosi di Cristo, Signore della vita, hanno spalancato le porte alla «strage degli innocenti» e a Satana, signore della morte, che ne è stato il primo e principale ispiratore. Non fà certo onore alla comunità cristiana la scontata rassegnazione davanti al dato di fatto dell'aborto, come se non fosse possibile far di più e far di meglio del quasi niente che si è fatto finora, per eliminare questa vergogna dalle leggi del nostro popolo. E fosse solo una questione di onore! Qui ci sono precise responsabilità, precise e gravissime colpe, se non altro il peccato di omissione da parte di tutti coloro che, in basso e in alto, nella società civile e più ancora nella Chiesa, non mettono la tragedia dell'aborto ai primo posto tra i flagelli da cui è affitto il nostro popolo e quindi al primo posto tra le molte battaglie da combattere. Basti pensare che, da quando in Italia esiste il «regime abortista», sono stati massacrati in media ben 200.000 bambini ogni anno.

 

E, se la matematica non è un'opinione, si fà presto a fare i conti, basta una semplice moltiplicazione: quasi quindici anni di «regime abortista» (nel 1991) per circa 200.000 bambini abortiti ogni anno..., ed ecco la cifra spaventosa: 3.000.000 (una città come Roma!) di bambini uccisi proprio da quella «Legge» che avrebbe dovuto difenderli e farli nascere. Occorre forse dell'altro per considerare lo Stato, questo Stato con la sua «Legge», come il nostro primo e principale nemico? In una società in cui non c'è più posto per Dio e per la sua giustizia, nessun uomo è al sicuro e i più deboli, i più indifesi, anche se innocenti, io sono meno degli altri.

 

Lo conferma una volta di più la storia drammatica riportata in queste pagine. La protagonista di questa storia mette bene in evidenza che solo dopo aver licenziato Dio, con cattive compagnie e con cattive letture, è stata capace di far uccidere sette figli. A chi giustifica l'aborto sarà aborto diritto sacrosantobene ricordare che, se non si converte, piomberà su di lui, come un fulmine, l'ira di Dio! Non è mai troppa la durezza che si può usare quando si parla, contro l'aborto. Ma è il peccato che va colpito, non il peccatore. A chi ha commesso questa colpa, e ne prova un sincero pentimento, non si parlerà mai troppo di misericordia: ne ha tanto bisogno per continuar a credere e per sentire che Dio lo ama ancora, come prima e più di prima. Quella Chiesa che in nome di Cristo non può che essere intransigente nel condannare l'orrendo delitto dell'aborto, sa anche essere piena di misericordia nell'offrire, a chi ha peccato, il perdono del Signore e la possibilità di «tornare a vivere», a credere, a sperare e ad amare. Solo la Chiesa sa fare questo. Il «mondo» che prima spinge l'uomo al peccato, annebbiandogli la coscienza e paralizzandogli la volontà, poi lo lascia solo... coi suoi rimorsi, coi suoi tormenti di coscienza; indifferente e comunque incapace di rigenerare la speranza in chi ha sbagliato. La Chiesa, al contrario, lancia un grido di allarme prima che l'uomo pecchi. Lo fa per illuminare la sua coscienza e non per togliere all'uomo la libertà. Lo fa per fermarlo prima che faccia e si faccia del male. Ma a fatto compiuto, quando la colpa è già stata commessa, quando un uomo piange il suo peccato, allora la Chiesa e solo la Chiesa sa dire parole di misericordia, sa ridare speranza, voglia e forza di riparare, voglia e forza di vivere. La testimonianza contenuta in queste pagine ne è una chiara conferma. Dov'era la donna che ha spinto all'aborto la protagonista di questa triste storia, quando questa si consumava in un tragico rimorso senza speranza?

 

In quei dolorosi momenti compare in scena la figura di un prete, che dal buio del suo confessionale sa far brillare la luce della fede, sa donare con le promesse di Dio il conforto della speranza, sa rigenerare all'amore una povera donna che il «mondo» ha ingannato e tradito fino a fare di lei un «rottame di umanità»: e poi, accanto al letto di morte... ecco un altro prete, venuto per ridonare fiducia in Dio a chi si apprestava all'ultima battaglia.

 

Dov'era il «mondo» in quel momento? Dov'erano gli abortisti coi loro stupidi slogan? Di quei criminali... nemmeno l'ombra! E se, del resto, ci fossero stati, che avrebbero potuto dire a quella povera donna ormai vicina alla morte e al giudizio di Dio? Per allargare il discorso sull'aborto, che è il peggior flagello del nostro tempo, mi è sembrato opportuno inserire in appendice altri scritti e altre testimonianze. Mi auguro, caro amico lettore, che questo libretto, che può salvare qualche bimbo dall'aborto e qualche persona dalla disperazione e dall'inferno, trovi, anche grazie alla tua preziosa collaborazione, una calda e larga accoglienza.

 

Don Enzo Boninsegna

Verona, 28 dicembre 1991

Festa dei Santi Martiri Innocenti

 

Dicembre 1945

 

Ero tornato da una breve passeggiata, fatta prima dell'orario consueto, quando venni chiamato al telefono da una persona che non volle dire il suo nome. Invece di questo, chi chiamava accennò a un incontro avuto con me qualche anno innanzi e così poté facilmente farsi riconoscere. «Mamma é gravissima. C'è chi le ha parlato di lei. Ha detto che gradirebbe molto una sua visita». Dopo venti minuti ero al capezzale dell'inferma. L'impressione che mi fece fu pessima. Aveva un volto sfinito e pallidissimo. Due occhioni grandi, ancora affascinanti, ma carichi di sofferenza. In capo una cuffia di lanetta bianca. I movimenti erano misurati e stanchi. Mi salutò con un filo di voce, ma c'era in questa una grande dimostrazione di gratitudine. Dopo di ciò, i familiari si ritirarono ed io fui solo con lei.

 

- Padre, mi ha riconosciuto?

- Certamente: perché me lo domanda?

- Credo che devo essere molto cambiata.

- Non tanto, come lei pensa, da essere irriconoscibile. E allora mi dica in che cosa posso esserle utile. Sono qui a sua disposizione.

- Può darmi tutto il tempo che mi occorre?

- Non ho altra premura che di servirla in tutto quello che posso.

- So che lei è religioso, vive di orario.

- Ma in certi casi l'orario è l'ultima preoccupazione.

- Grazie, padre. Come vede, io vado verso la fine. Vorrei confessarmi.

- Sono qui ad ascoltarla. La prego soltanto di non stancarsi. Se permette, farò del mio meglio per aiutarla.

 

Così dicendo, mi feci più vicino, recitai la breve preghiera di rito, tracciai su di lei un segno di croce e mi raccolsi ad ascoltarla. Ma presto ebbi a stupire dinanzi alla limpidezza, all'ordine, alla precisione con cui parlava quella donna che si dibatteva tra la vita e la morte. Una preparazione, che meglio non potevo desiderare.

 

- Padre, si può interrompere per qualche momento?

- Certamente. Non si affatichi. Le occorre qualche cosa?

 

Fece un cenno affermativo e toccò una piccola pera, che aveva lì a portata di mano. S'affacciò subito una suora infermiera con una bacinella e tutto l'occorrente per un'iniezione. Qualche minuto di attesa nel salotto accanto e rientrai. Ancora pochi minuti e il mio compito sembrò terminato. Ma l'inferma domandö:

- E ora, che altro dovrei fare?

- Sono lieto che sia lei a chiedermelo. Le consiglierei di disporsi a ricevere domani mattina il santo viatico e l'olio santo. Ma se per questo preferisse il parroco, potrei passare io stesso da lui.

- No, preferisco fare tutto con lei. Perché attendere domani mattina? Non si potrebbe questa sera?

- Certo che si può.

Inteso ciò, toccò di nuovo la pera, e questa volta, insieme con la suora, entrarono una giovane signora con una bambina tra le braccia, suo marito e un ragazzino di cinque o sei anni.

- Suora, ho detto al padre di fare tutto questa sera. Lei che ne dice? Voi che ne dite?

I familiari si guardarono con occhi gonfi di commozione e non seppero che cosa rispondere.

- Io penso che sia un'ispirazione di Dio, disse invece la suora.

- Faccia pure come dice, signora. Oltre tutto, ciò l'aiuterà a passare la notte più tranquilla.

- Allora, padre, sono nelle sue mani.

In pochi salti fui alla chiesa vicina, dove il parroco stava già per chiudere. Una cotta, doppia stola, borsetta con l'olio santo, un rituale, un asperges, la piccola teca col Santissimo e rinfilato il soprabito, dopo pochi minuti ero di ritorno. La suora aveva intanto già convertito il comò di fronte al letto in un altarino tutto lindo e devoto: c'erano anche dei fiori che mi parvero un miracolo di finezza. L'inferma, prima di ricevere gli ultimi sacramenti, mostrò il desiderio di volermi parlare di nuovo sola a solo. Credetti volesse aggiungere qualche breve appendice alla confessione. Invece, quando gli altri furono usciti, cavò da una borsetta di celluloide una busta abbastanza gonfia e tenace, e col gesto di consegnarmela disse:

- è l'ultimo favore che le chiedo, padre. Mi promette di eseguire quanto sto ora per dirle?

- Di che cosa si tratta?

- Qui c'é l'ultima mia volontà.

- Ma noi non sogliamo essere esecutori testamentari.

- Non si tratta di questo, disse con un lieve sorriso Qui c'é il racconto della mia povera vita, da quando fui sposa ad oggi. Vorrei che lo pubblichi, ma di qui a dieci anni. Solo faccia in modo, in quanto le sarà possibile, che nessuno possa capire di chi si parla.

- Lo ha scritto lei?

- Certo.

- Potranno riconoscere il suo stile.

- E allora faccia in modo che anche questo non sia riconoscibile.

- E in che modo?

- Lo riscriva lei. Forse le domando troppo. Ma sarà un'opera di bene. Me lo promette? Ho tanta fiducia in lei.

Sul mio volto c'era tuttavia un'esitazione strana.

- Le assicuro che non c'è nulla di compromettente. è da anni che ho pensato di far questo. E più ci pensavo, più mi sentivo serena. Non mi dica di no. Lei, fin da questa sera, se crede, potrà leggere. Le ripeto: nulla di compromettente, per nessuno. Sono cose viste nella luce di Dio, dopo di essere passata per esperienze ed espiazioni che non auguro a nessuna mamma. Sono cose che mi hanno accorciata la vita. Non vorrei che a tante mamme capitasse altrettanto.

- Quand'é così, farò del mio meglio.

- La ringrazio.

 

Una toccatina al campanello chiama tutti dentro, meno i due bambini che la mamma aveva intanto messi a letto. I due ultimi sacramenti vengono amministrati in un clima perfetto di serenità e di pace, e debbo farmi violenza continua per non tradire il rigurgito di commozione che ho dentro. Erano quasi le venti. Un istintivo sguardo all'orologio fece capire alla inferma il mio desiderio di andar via.

- Vada pure, padre. Io non ho parole come ringraziarla. Non voglio trattenerla più a lungo. Mi pare di essere in pace con Dio.

- Perché dubitarne? Ora le do ancora la mia benedizione - le dissi alzandomi - e con questa le auguro la buona notte. Se domani mattina avrà bisogno di me, non abbia difficoltà a chiamarmi.

- Domani mattina? Riuscirò a vederla?

Così dicendo prese le mie mani, le tenne per qualche istante nelle sue, calde di febbre, fissandomi con una gratitudine senza parole, poi le baciò e mi lasciò partire con un espressivo cenno di addio. Appena varcata la soglia del portone di casa, dove era la fermata del tranvai, mi misi ad attenderlo, mentre ringraziavo il Signore di avermi fatto suo sacerdote, mediatore tra lui e le anime. Di lontano era già apparso il tranvai, quando la portinaia corse a dirmi:

- Reverendo, quei signori di sopra la chiamano d'urgenza, la pregano di risalire. Appena fui nel corridoio dell'appartamento, mi accorsi che tutto doveva essere cambiato. L'inferma gridava con la forza di un'ossessa. In una camera accanto i bambini, svegliati, strillavano terrorizzati. La mamma, che si affaticava a calmarli, piangeva anche lei che pareva inconsolabile. La suora e il genero dell'inferma facevano sforzi inauditi per tener costei sul letto, sul quale si dibatteva e diceva di voler lasciare, perché bruciava in modo orrendo. La mia vista invece di rabbonirla, la rese ancor più furiosa. Quegli occhi che poco prima erano stati così buoni e sereni mi fissavano ora con una specie di odio inesplicabile.

 

- Eccolo li, mi ha parlato di misericordia. Bugiardo! Mi ha detto che non dovevo pensare più al mio passato. E ora non vede che il mio passato mi viene incontro. Essi sono lì, mi fissano uno per uno. Mi guardano con odio. Nessuno di voi li vede. Ma io li vedo. Li vedo io quei volti, quegli occhi, quegli sguardi freddi, duri come sempre.

- Si calmi, signora. Lei ha fatto di tutto per guadagnarsi la misericordia del buon Dio. Stia tranquilla. Creda alla mia parola di sacerdote. Su, un atto solo di confidenza e si abbandoni a Lui.

Così dicendo, aspersi il letto e vari punti della camera con acqua benedetta e feci per sedermi accanto alla povera inferma.

- Ma che cosa ha fatto, lei? Ha creduto che si trattasse di diavoli, forse? Ma essi non sono diavoli. La sua acqua non fà nessuna paura a loro. Essi rimangono lì, fermi, beffardi, severi, come sempre.

- Le allucinazioni d'una volta, disse al mio orecchio suo genero; ma l'inferma l'intese.

- Allucinato sei tu. Non sono allucinazioni queste. Non furono mai allucinazioni. Non avete mai voluto capirlo. Ah, povera me!

 

Seguì un collasso. Il polso sembrò arrestarsi. L'inferma rimase a lungo immobile, con gli occhi fissi sulla parete di fronte. Si sarebbe detta ebete e senza conoscenza, se gli occhi non fossero rimasti spalancati verso la direzione suddetta e vivi. Presi il rituale e mi misi a pregare. Avvenne quello che in nessun modo avrei potuto prevedere. Con uno scatto fulmineo mi strappò il piccolo libro di mano e lo buttò via.

- A che serve? Tutto é inutile. Non vede che non c'é più nulla da fare? Non capisce che sono già dannata?

E si voltò dall'altra parte. Ma subito si rivoltò di nuovo verso di me, come ributtata da una visione che dovette farle orrore. Mi fissò senza riconoscermi, a lungo. Poi mi parve che sulle labbra si disegnasse una smorfia di disprezzo, forse di derisione. Mi afferrò istintivamente un braccio, come un naufrago che cercasse qualche cosa per tenersi a galla, e rimase così, con espressione assente. Non sapevo che cosa pensare. Suo genero e la suora erano dall'altra sponda del letto, lui tenendo il polso della mano libera dell'inferma nella mano, la suora, col rosario tra le dita, pregava. Attento a spiare con gli occhi negli occhi, appena mi parve che nei suoi lampeggiasse un ritorno all'intelligenza, mi piegai verso di lei e le suggerii: «Gesù mio, misericordia». Parve capire. L'occhio dapprima vagò incerto e sperduto per il soffitto, come se inseguisse, non so, il filo di un ricordo, poi, con una specie di riflesso meccanico, senza intelligenza e senza sentimento, ripeté: «Gesù mio, misericordia». Questo m'incoraggiò a ripeterle la piissima giaculatoria, e lei ripeté dopo di me, come prima, senz'anima.

 

- Forse é il coma, disse a voce bassa il genero alla suora.

Questa mi allungò allora il crocifisso della corona e lo accostai alle labbra dell'inferma. Al tocco di quell'oggetto ebbe un impercettibile sussulto. Una mossa del capo mi fece pensare che reagisse come per un rifiuto, e ne tremai.

- è Gesù che vuole salvarla, lo baci, e baciandolo io stesso le indicai come dovesse fare. A quel gesto l'ammalata spalancò gli occhi, protese le labbra verso la immagine sacra del Redentore come per baciarla con visibile trasporto. Ma immediatamente le sue labbra si contrassero di nuovo, senza che io potessi capire se volessero spiccare un bacio o un supremo gesto di disprezzo. E restò immobile. Al veder cadere suo genero in ginocchio, in un singulto di pianto, lasciando l'inutile polso e col capo affondato contro la sponda del letto, capii che l'inferma era morta. Quel che avvenne quando entrò sua moglie é più facile immaginarlo. Mi accorsi da quel pianto quanto l'amavano. Ma io pensavo ad altro.

- Mio Dio, che cosa sarà stato quell'ultimo gesto? Un bacio o un rifiuto? Questo interrogativo mi batté in mente col ritmo d'un pendolo durante tutto il tempo che impiegai per andare a casa, a piedi, perché la circolazione dei mezzi pubblici era cessata. La mattina dopo, al memento dei defunti, sentii come una voce che mi giungesse improvvisa, non all'orecchio, ma all'intimo dell'anima tuttora impressionata e commossa. «Modicæ fidei, quare dubitasti»? Fu come la rivelazione di un polo magnetico, ed orientandomi verso di quello, provai una pace e una serenità inattesa. Mi sembrò il segno di una certezza a cui sarebbe stato temerario rinunciare. Di lì a qualche giorno, con la busta misteriosa tra le mani: «L'apro, non l'apro»? Poi riflettei. è una volontà che devo far conoscere soltanto tra dieci anni. Che cosa vale aprire adesso? Così dicendo, feci per cacciarla in fondo a un cassetto. «E se morissi prima»? A questo pensiero, presi un'altra busta più grande e scrissi sopra: «C'è qui l'ultima volontà di una persona che ho assistita in punto di morte. Essa vuole che sia resa nota allo scadere di dieci anni dopo il suo trapasso. Si apra e si faccia conoscere nel dicembre 1955. Prego eseguire con scrupolosa fedeltà e di tacere il nome del depositario».

 

Dicembre 1955

 

Ecco ad eseguire io stesso il mandato di quella povera donna. Questa mattina, prima di procedere all'apertura della busta, ho voluto celebrare la santa Messa per lei. «Modicæ fidei, quare dubitasti»? Mi é ritornato ancora una volta in mente e ne ho provato pace e serenità come allora. Taglio la busta e ne cavo fuori dodici fogli scritti a mano. Una scrittura fine, densa, ordinatissima, vergata da una mano che rivela un perfetto dominio di sé. Quei fogli devono essere stati scritti tutti di seguito, si direbbe d'un fiato, perché solo verso la fine si avvertono sintomi lievissimi di stanchezza. C'é l'andatura d'una mano coraggiosa e risoluta che sa di lacerare un velario dietro il quale ci sono cose che le preme di far conoscere. «Non vorrei che a tante mamme capitasse altrettanto».

 

Al posto della località, alcuni puntini sospensivi. La data è quella del gennaio 1945. La lettera é intestata: «Per tutte le mamme». Al posto della firma: «Una mamma». Ecco il testo della lettera, giacché ho visto che così devo chiamarla. L'ho subito trascritta a macchina per distruggerne l'originale: particolare, anche questo; che mi era stato raccomandato. Inoltre, ho avuto cura di alterare parecchie circostanze secondarie allo scopo di disperdere ogni traccia dell'ignota protagonista.

 

Anno 1914: due famiglie amiche, ma profondamente diverse

 

Il 1914, poche settimane prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, mi sposai con un tale che conoscevo fin da piccola. Le nostre famiglie abitavano nel medesimo palazzo ed erano legate da vecchi rapporti di amicizia. Quando noi ragazzi divenimmo più grandi, passavamo insieme anche le vacanze, ora alla spiaggia, ora in montagna. Con l'età mi accorsi che la sola differenza tra le due famiglie consisteva in ciò: che quella era molto religiosa, mentre la nostra lo era molto poco. Ma questo non gettò mai un'ombra sulla cordialità delle nostre relazioni, dato il rispetto reciproco che ci eravamo imposti e che ci univa in ogni cosa.

 

Ricordo che in un compleanno di papà, capitato di venerdì, mamma fece servire a tutti di magro, perché a cena avevamo invitato persone della famiglia amica. Ho voluto subito notare questa differenza, perché essa avrebbe purtroppo improntato anche la vita dei figli delle due nidiate; noi eravamo tre, quelli otto. Chi fosse entrato nei nostri salotti, con un po' di attenzione avrebbe potuto riconoscerci dai quadri che si vedevano alle pareti e dai giornali e settimanali o riviste mensili sciorinate dappertutto. Di là tutti o quasi tutti religiosi: io dicevo maliziosamente «da bigotti»; i nostri tutti mondani.

 

l Com'è nato l'amore per il mio futuro marito

 

Una sera d'agosto che eravamo in montagna, io mi sentii improvvisamente male, con certi dolori all'addome che mi parve di morire. C'era tra l'altro un sudore freddo che mise tutti in allarme. Fuori faceva già buio e per di più si andava addensando un temporalone da far prevedere una nottataccia da lupi. Il medico più vicino era cinque chilometri distante. Tra lui e noi niente telefono, niente mezzi di comunicazione. Ma appena i miei si decisero a farlo chiamare, chi si offrì ad andarvi e non permise che altri lo facesse in vece sua fu colui che doveva essere mio marito. Era uscito da pochi minuti che il temporale si rovesciò con una violenza inaudita. Ho ancora negli occhi i lampi di quella sera e negli orecchi lo scoppio di certi tuoni che pareva volessero scardinare il mondo. Mi ricordo che in quell'occasione la signora della famiglia amica intonò il rosario e tutti pregarono insieme come non avevano mal fatto, né vidi mai più fare.

 

Il mio stato si faceva sempre più grave. A questo si aggiungeva l'incertezza se il medico si sarebbe trovato in casa e disposto a venire nonostante quel tempaccio. Passarono una, due, tre ore, nessuno si vedeva giungere. Vi fu un momento in cui mi parve di essere alla fine, quando papà, che era stato quasi tutto il tempo a spiare da una finestra, disse di aver inteso un fischio lontano e nell'oscurità aveva veduto le segnalazioni di una lampadina rispondere alla sua. Quando giunse il medico io perdevo già la conoscenza e non potei rendermi conto né di ciò che disse, né di ciò che mi fece. So solamente che verso l'alba mi risvegliai, i dolori erano scomparsi e il dottore mi sorrideva tutto paterno: «Coraggio, tutto é passato, domani potrà riprendere le sue passeggiatine, è contenta»? Alle mie parole di ringraziamento, egli rispose subito: «è piuttosto lui che deve ringraziare, non me. Ecco chi l'ha salvata. Se fosse giunto solo un po' più tardi...»! E dietro il dottore vidi il giovane amico di famiglia con gli occhi raggianti di commozione. Vederlo e protendergli istintivamente le braccia per attirarlo a me come un fratello e baciarlo fu tutt'uno. Fu quello il primo anello di un amore che forse era già in incubazione; ma quell'episodio lo fece improvvisamente sbocciare per portarci fino alla nostra unione.

 

Una figlia e poi... basta!

 

Durante circa due anni la nostra vita insieme fu inondata di felicità. Questa toccò il colmo quando una bambina venne a mettersi tra noi. Ma fu una felicità che per poco non mi costò la vita, tante furono le difficoltà e gli strazi che mi toccò soffrire in quel parto. Se mia figlia restò viva fu un miracolo. Subito dopo quell'evento, mio marito fu mobilitato; ma dato l'incarico affidatogli, potemmo, per tutta la durata di quella guerra, rivederci almeno ogni due mesi, talvolta anche più spesso. Un giorno che io e mio marito uscimmo a parlare esplicitamente, di figliolanza: «Nessun limite alla Provvidenza, cara». E io disse con la fermezza che soleva mettere in tutte le sue cose. Capii subito che contrariarlo avrebbe aperto tra noi uno screzio che poteva diventare un abisso, e preferii tacere.

 

Ma dentro me stessa si accese una rivolta che nessuno avrebbe domato. «Una chioccia continuamente in cova, ah, questo poi no»! Attraverso i discorsi di un'amica, che aveva preso a frequentarmi fin dal nostro matrimonio, anche perché coinquilina, lei al piano di sopra, noi al primo; dalle letture che costei mi forniva a getto continuo e più ancora per il ricordo di ciò che avevo patito nel dare alla luce la mia prima creatura, andavo concependo un orrore indicibile verso nuove maternità. Devo, in più, confessare, non senza mio vivo rammarico, che in questo aborrimento entrò molto la mondanità a cui mi andavo abbandonando, e con questa una passione strana per la linea, che avrei preferito morire pur di non vederla sconciare, per ricorrere a un'espressione della mia amica fedele. Dio mi perdoni, tra i tanti miei peccati trascorsi, le ore che ho passato da sola, in stupida auto ammirazione, davanti alla grande specchiera della nostra camera da letto.

 

- Perché leggi questa roba?, mi chiese un giorno mio marito, dando un'occhiata alle stampe suddette.

- Non ti piace?

Stette un momento senza rispondere, poi disse, a bruciapelo:

- Lo sai che cosa dice un proverbio?

- Che cosa dice?

- Dimmi che cosa leggi e ti dirò chi sei.

- Davvero?

E tutto finì, così, ma da quel giorno mio marito non trovò più nel nostro salotto quei pretesti per pensar male. Ritornai educanda, leggevo di nascosto. Vista la decisione di mio marito riguardo al problema dei figli, me ne confidai con l'amica di tutti i giorni, piangendone con un esasperato dispetto.

- Sei sciocca se l'ascolti.

- Ma come potrei fare?

- Sei ancora così ingenua? E da quel giorno divenne una maestra raffinata di pratiche anticoncezionali, che io mi misi a seguire con una docilità che essa diceva ammirabile.

 

Il primo aborto

 

Ma con tutte le precauzioni, dopo due anni, o poco più, da quella prima maternità, ecco annunciarsene una seconda, che capitò durante due mesi di licenza di convalescenza toccata a mio marito in seguito a una febbre tifoidea, che per poco non lo ammazzava. All'annuncio che ne diedi all'amica: «Prudenza - mi disse - Aspetta che parta tuo marito». E aspettai. Anzi, non vedevo l'ora che partisse, tanto il mio egoismo mi rendeva a poco a poco disamorata. Vedo ancora oggi la felicità che lo invase, nel salutarmi, al pensiero che una nuova creatura sarebbe venuta presto ad accrescere la nostra famiglia. «Te la raccomando tanto, amore mio. è il mio più geloso deposito. Addio, cara»! Ma appena partito, si cominciò a concertare con la mia amica come disfarmi dì quel caro deposito. «Prudenza e pazienza», ripeteva lei. Ma io che non avevo questa pazienza, facevo temere di non avere più nemmeno la prudenza, tanto fui presa dalla smania di far presto.

 

Chi mi venne incontro fu la sorte. Una sera, mentre eravamo insieme, accadde sotto le nostre finestre una sparatoria. Tutto il vicinato ne fu sottosopra. Io dovetti sbiancare di spavento e mi buttai sul letto. «Questo é il momento buono», disse lei. Non dirò a che cosa ricorremmo per liberarmi. In meno d'una settimana ero a posto. La lettera che mio marito mi scrisse, quando gli narrai il fatto, mi fece piangere di commozione e di rimorso. Gli avevo saputo dimostrare un tale dolore, che quasi tutto il suo scritto era per consolarmi. La mia amica ne rise di perfidia. Ma davanti a quella lettera io mi sentii sinceramente mostruosa e detestabile. All'incontro di alcuni giorni dopo, mio marito fu con me di un'affettuosità nuova. «Stai tranquilla, cara. è stata una disgrazia. Ma tu sei sana e il Signore non mancherà di consolarci».

 

Il secondo aborto

 

Otto mesi dopo quell'aborto, ecco i sintomi evidenti della terza maternità. La mia amica disse di far presto: «Più presto te ne sbrighi, meglio è». Ma io ebbi dei tentennamenti strani. Mi dibattevo tra l'amore per mio marito e l'orrore per l'ingombro che sentivo crescermi dentro e di cui avrei voluto liberarmi. Tergiversai per varie settimane. Le settimane divennero due, o tre mesi, per quanto ricordo. Ma una mattina corsi senz'altro dalla mia amica per consultarmi sul da farsi.

 

- Con una cosa portata così avanti, mica si scherza, oh!

Stetti a guardarla disfatta.

- Qui ci vuole una molto pratica. Conosco un'infermiera abilissima che si presta a questi servizi. Ma prende un accidente di paga, da far paura.

- Quanto prende?

- Dalle mille alle due mila lire. Qualche volta anche tre. Ha una fifa del diavolo di compromettersi, e per uscirne, dice, ci vuol danaro a palate.

- Mi garantisci che ha una mano sicura?

- Oh, quanto a questo, la conosco bene. Puoi essere più che tranquilla.

- Ti darò la risposta domani mattina, al più tardi.

Andai via indecisa. Ma appena fui in camera, mi aggrappai al telefono:

- Aspetto senz'altro domani mattina. L'infermiera fu puntualissima. Nuovi momenti di esitazione prima di sottopormi alle sue «cure».

- Signorina, dovrebbe suggerirmi un pretesto per giustificarmi dinanzi a mio marito.

- Ma come? Non siete già d'accordo?

- Tutt'altro.

- Ah, è così? E se lo trovi lei questo pretesto. Io non vorrei capitare in un guaio. E fece per andarsene.

- Mi abbandona? Capii che era una manovra per spillarmi tremila lire. A quei tempi! Dovetti ricorrere a un mondo di bugie per averle in giornata. Allo scopo di evitare ogni traccia che la potesse compromettere, mi invitò a casa sua da sola. Vi andai. Al ritorno mi prese un singhiozzo lungo, mai provato, che mi sconvolse tutta. Verso la mezzanotte mi sentii male ed ebbi appena le forze per portarmi al telefono. «Se ci fosse qualche novità notevole, mi dia un saluto per telefono», mi aveva detto, con una specie d'indifferenza da lasciarmi tranquilla. Ma per quanto l'apparecchio squillasse, nessuno rispose. Seppi il giorno appresso che difatti era stata chiamata altrove. Fui presa da uno spavento indicibile. Avrei voluto avere vicina la solita amica, ma proprio quella mattina si era allontanata dalla città dove sarebbe ritornata dopo qualche giorno. Sconvolta sempre più dal singhiozzo e dai dolori, mi decisi a chiamare un cugino di mio marito, che da poco aveva aperto uno studio di ginecologia. M'interrogò, insistette, volle sapere l'origine di quel singhiozzo.

 

Ma io mi irrigidii nel rispondere che non sapevo nulla, che tutto era avvenuto da sé. Il dottore mi guardò con un'espressione scettica che mi fece amaramente pentire di essermi rivolta proprio a lui. Di li a poche ore dovette assistere al mio secondo aborto con l'aiuto di una infermiera, che era tutto un fagottone di carne e di panni, chiamata dalla clinica dove il dottore soleva operare. Me la cavai meno peggio di quanto non avessi temuto. Quello che mi agghiacciò e mi tenne per qualche giorno come sotto la spada di Damocle, fu ciò che mi disse all'orecchio l'infermiera nell'andarsene, dopo l'ultima di tre visite che mi fece, per mettermi a posto. «Un'altra volta, prima di fare una simile sciocchezza, ci pensi». Protestai, usando anche qualche parola offensiva. Ma quella, che doveva essere un praticona del diavolo: «Ho parlato per il suo bene, signora. Si ricordi che ci si può rimettere la vita, come ce l'ha fatta rimettere alla sua creatura. E poi c'é anche la galera». E andò via.

 

Altri cinque aborti

 

Due giorni dopo, mio marito era a casa in breve permesso. Lo vidi disfatto. Suo cugino, che lo aveva immediatamente avvertito della cosa, fu con me un galantuomo impareggiabile. Pensai che il segreto professionale gli aveva tappato la bocca come a un confessore. Ero in angoscia per l'infermiera, «quella dannata», dicevo tra me. Ma mi misi in pace quando venni a sapere che era una suora, ed io non me n'ero accorta. «Se é una monaca, pensai, non vorrà far scoppiare un incendio tra me e mio marito».

 

Dopo questo nuovo episodio, dovetti per volontà di mio marito lasciarmi visitare da due o tre ginecologi di gran nome e tutti mi trovarono sanissima. Ma nessuno può nulla contro una volontà ostinata e sostenuta da una scaltrezza che dispone di sempre nuove risorse. Qui mi astengo dal fare la storia di ben altri cinque aborti dei quali mi resi colpevole negli anni successivi. Storia che oltremodo mi ripugna e che oltre tutto sarebbe scandalosa, ma nella quale é quasi inesplicabile come fossi aiutata dalla sorte.

 

Il sospetto di mio marito

 

Fino al penultimo, mio marito non sospettò mai di nulla, tanto seppi fingere di volta in volta il mio dolore. Al sesto, dopo qualche giorno, mentre tornavamo dalla clinica, uscì a dirmi:

 

- Guai se dovessi esser certo che tu ci hai la più piccola colpa!

- Che cosa faresti?

- Non lo so. Potrei divenire l'assassino di mia moglie, come essa lo é dei miei figli.

- Osi pensarlo?

Egli non rispose parola. Per tutta la mia vita non credo di essere stata mai più abile attrice. Una crisi di pianto, improvviso e disperato, strappò subito a mio marito la ritrattazione di ciò che aveva detto. L'ultimo aborto avvenne in circostanze che ne feci quasi riversare su di lui tutta la colpa. Era al volante d'una macchina allora acquistata e volle che io e mia figlia l'accompagnassimo, in un giretto d'inaugurazione. A una svolta ci fu uno scontro fortunatamente meno grave di quel che poteva essere. I soli danni: qualche graffiatura ai parafanghi e una grossa paura. Fu l'occasione perché di lì a qualche giorno uccidessi la mia settima creatura.

 

Mi difendevo dal rimorso

 

Dopo qualche settimana, mio marito, in seguito a un'infame denuncia al fascio locale, fu preso, interrogato e in quattro e quattr'otto spedito al confino. Restai sola con mia figlia, ormai signorina di liceo, che frequentava presso un istituto di suore, e insieme con noi era una vecchia domestica che mio marito aveva come ereditata dai suoi e teneva in casa per carità, perché in seguito a un errore giovanile, non era più ritornata in famiglia, laggiù nel mezzogiorno. Un pomeriggio, nell'andare a prendere mia figlia, mi venne offerto dalla portinaia l'invito ad una conferenza «tutta riservata per signore», e che si sarebbe tenuta in una sala dell'istituto stesso.

 

Vi andai. La conferenziera la conoscevo di nome. Il tema era sul problema della figliolanza. Fin da principio assunsi un'aria da indifferentona perfetta, come se la cosa non mi riguardasse affatto. Si andava verso la fine, quando la conferenziera, enumerando le responsabilità incalcolabili di certe madri, prese a insistere sulla sorte delle anime di tanti bambini non fatti nascere e soppressi nel seno stesso che li ha concepiti. La sorte delle loro anime?... Francamente, io non mi ero mai posto un tale problema, tanto ero rimasta nella persuasione che non fosse nemmeno il caso di parlare di anime, soprattutto in aborti di due o al più di tre mesi, quali erano i miei. Accolsi quella parte della conferenza come una fandonia, come un diversivo oratorio di poco buon gusto e, oltretutto, antiscientifico.

- Non le pare che queste ultime cose che ha detto siano una vera sciocchezza?, chiesi a una signora che mi sedeva al fianco.

- Così la penserà lei; per me no, rispose quella con una sicurezza che mi sembrò scrutatrice e tagliente.

- Strano, dissi per uscirmene.

- Nulla di strano. Del resto, anche se la cosa fosse solamente dubbia, mettiamo, vorrebbe lei per questo mettersi nel rischio di strappare un'anima al suo destino eterno?

«Sono, capitata male - dissi tra me - e ho fatto malissimo a parlare».

Tornai a casa, cercando di persuadermi che ero stata ad ascoltare delle stupidaggini. Come si può parlare di anima in un piccolo grumo di mucillaggine che appena appena si avvia a prendere sembianze umane? E Intanto mi ritornavano in mente i paroloni con cui la conferenziera era andata descrivendo l'eccidio che avverrebbe di tante migliaia e migliaia di creature umane.

 

Ricominciai a pregare

 

Quella sera cenai male. Lessi le cose più sciocche e distraenti, e nell'andare a letto volli prendere un sonnifero che mi fece dormire fino a tarda mattinata. Col buon sonno anche le strane impressioni della sera precedente erano svanite. Nei giorni successivi ne parlai con più di un'amica e anche con un dottore: li trovai tutti con me. Di mio marito non sapevo che cosa pensare. Ancora nessuna notizia precisa. Non so quante vie tentai di potergli scrivere e inviare qualche pacco di viveri, d'indumenti, di libri; ma tutto fu inutile. Un giorno la vecchia domestica, che secondo una scherzosa espressione di mio marito, «faceva la monaca di casa», tanto si era dedicata alla vita devota, uscì a dirmi che lo raccomandassi a Santa Rita, la Santa degli impossibili. Una sera, infatti, prima di mettermi a letto, cominciai la mia preghiera alla Santa, servendomi di un libretto di pietà messo fuori uso da mia figlia. Dopo quella preghiera, mi parve di essere più serena, più fiduciosa.

 

Sentivo che ciò che non potevo fare io per il mio povero confinato, poteva ottenerlo la Santa a cui avevo cominciato a raccomandarlo. Era da parecchio che non pregavo. Avevo completamente lasciato la preghiera in seguito ad un forte rimprovero ricevuto da un confessore, dal quale a stento ero riuscita a strappare l'assoluzione per potermi comunicare con mio marito e mia figlia il giorno che costei fece la prima Comunione. Il mio cuore sembrava aprirsi alla speranza che Santa Rita mi avrebbe ascoltata. La domestica mi aveva detto, con la sicurezza di un teologo: «Lei preghi: se non le farà proprio questa grazia, gliene manderà un'altra più grossa. I Santi non si pregano mai inutilmente; ma delle preghiere fanno essi quello che vogliono; lasciamo fare a loro, che sanno meglio di noi». Una dottrina che sul momento non capii bene, e alla quale non seppi che cosa obiettare.

 

Voci nella notte

 

Dormivo forse da due ore, quando fui svegliata da una voce strana: «Mamma»! Mia figlia quella notte era andata a dormire dalla zia. E poi, quella non era la voce di mia figlia. Accesi la luce, balzai a sedere sul letto e stetti in ascolto. Pensai provenisse dall'appartamento degl'inquilini di fronte. Ma scartai subito quell'ipotesi. La voce io l'avevo intesa distinta, vicinissima, nella mia camera, al mio fianco, sono per dire al mio orecchio, addirittura dentro di me. Che l'avessi udita realmente non avevo neppure il più piccolo dubbio. L'avrei giurato su ciò che mi é di più caro. In più, osservai che non era una voce sola, ma parecchie insieme, fuse così bene da sembrare una sola. In camera ora non udivo che il battito del mio cuore in subbuglio. Ebbi la percezione strana, ma chiara, che si trattasse di un fatto misterioso.

 

Non sapevo spiegarmi perché il pensiero andasse spontaneo alle parole della donna di casa: «Se non le farà proprio questa grazia, gliene manderà un'altra più grossa». Perché fissarmi solo su quelle parole? Stetti non so quanto tempo così, in ascolto, come sospesa sul vuoto, senza avere altri pensieri, senza esser capace di pensare e distrarmi con altro. Infine, mi venne da riflettere che si trattasse semplicemente di un incubo al quale stavo dando tanta importanza. Spensi risolutamente la luce e mi rimisi sdraiata. Ma sentivo che non avrei dormito. Non passò un quarto d'ora e di nuovo la voce di prima, meglio, le voci di prima, fuse in una sola, chiamarono: «Mamma...»! Adesso ero sveglia e potei accertarmi che quelle voci provenivano proprio di li, dalla mia stanza, a non più che uno o due passi da me. Erano voci ovattate, soffocate, di un tono misteriosamente triste. Questa volta né accesi la luce, né mi alzai a sedere sul letto.

 

Ero come paralizzata. «Ma è un sogno questo o una cosa vera»?, ripetei tra me. E così dicendo, mi misi a toccarmi le mani, a contarmi le dita, ad aprire e chiudere i bottoni della camicia da notte all'altezza del petto, a contare le stecche delle persiane attraverso le quali filtrava la luce del globo che era sulla strada. Poi non pensai più a nulla. Mi occupai solo a seguire i battiti del cuore, che non riuscivo a dominare; a distrarmi, ma senza poterci riuscire. Allo scadere di un altro quarto d'ora, quell'unisono di voci si fece udire distinto, più insistente e più accorato di prima. Ora vinsi la paura che mi stava riprendendo con una specie di gesto furibondo. Ma possibile che non debba sapere che cosa é questo! Accesi la luce, mi buttai dal letto e corsi a svegliare la domestica. In realtà, cercavo un rifugio dalla paura.

 

- Non hai inteso nulla, tu?

- Che cosa dovevo udire?

- Ma come, dei rumori, una voce, delle voci che chiamano.

- Ma no, io non ho inteso nulla; mi lasci dormire.

- Ma se io le ho intese!

- Saranno gli spiriti, disse lei, tanto per buttar lì una risposta stupida e farsi lasciare in pace.

 

Difatti, si voltò dall'altra parte, rimettendosi a dormire. Ma fu appunto quella stupidissima risposta che mi tolse ogni speranza e possibilità di riposare. Passai nel salottino, accesi tutti i tre ordini del lampadario e mi misi a sfogliare nervosamente, disordinatamente un settimanale e una rivista dopo l'altra, senza mai leggere nulla. Stetti così fino al mattino, quando mi distesi sul divano e fui presa da un sonno di sfinimento. Mi svegliai quando la domestica, di ritorno dalla spesa, aveva suonato il campanello, perché sbadatamente aveva dimenticato di portare con sé la chiave di casa.

- Madonna santa, che faccia! Che cosa ha avuto questa notte? Non ha dormito lei e non ha fatto dormire me.

- Stai zitta, sbrigati e non fare domande stupide!

Lei andò a sfaccendare in cucina, ma la udii brontolare: «Saranno stati veramente gli spiriti», e concluse con una risatina che mi tolse via ogni senso di sopportazione. Con un salto fui da lei:

- Lucia, ti ho detto di non far la stupida. Se dici ancora mezza parola non so come andrà a finire questa mattina. Hai capito?

- Ho capito che ha i nervi e non fiaterò più.

 

Passai la giornata con visite a catena. Ce ne fu anche una in chiesa. Vi andai, non saprei dire io stessa il perché. Ma quando mi trovai davanti al quadro di Santa Rita, tirai dritto.

 

Un'altra notte da incubo

 

Quella sera andai a letto molto tardi. Era quasi il tocco, essendomi trattenuta con la solita amica, senza però dirle parola di ciò che mi era capitato durante la notte passata. Sarei divenuta subito la favola dello stabile e del vicinato. Mi buttai a letto con una gran voglia di dormire. Avevo allora caricato la sveglia e mi ero messa giù, quando le voci misteriose si fecero udire di nuovo, non una, ma due, tre volte:

- Mamma!... Mamma!... Mamma!

Un pensiero spaventoso mi attraversa la mente. Forse è un segno di alienazione mentale. Sarà bene che ne parli a uno psichiatra. Ma mentre mi raccoglievo su questo sospetto, mi scappò detto:

- Ma chi é che mi chiama così?

- Siamo noi, mamma.

- E chi siete, voi?

- I figli che non hai fatto nascere.

Se non diedi un urlo di spavento, fu perché non ne ebbi né la forza né il tempo:

- Guarda, siamo qui, vicino a te, tutti e sette.

E che cosa vidi? Sulla parete di fronte, tra la specchiera e la finestra, sette macchie di luci, informi, molto distinte, semoventi. Si movevano non scivolando sulla parete, ma tra la parete e me, cambiando consistenza, quasi di continuo. Sentii che ero gelata. Il pensiero di esser folle mi attraversò di nuovo la mente, e avrei preferito mille volte esser pazza, anziché persuadermi che quella era una realtà. Piuttosto esser pazza, andavo ripetendo tra me.

- No, mamma, é tutto vero quello che vedi. Tu non sei folle. Sei soltanto colpevole di averci uccisi nel tuo seno.

Credetti di morire. Osservai che quelle macchie di luci, parlando, assumevano ciascuna una sua fisionomia, graziosissima, ma di una tristezza e di una severità che nessuna mamma vedrà mai sul volto dei proprî bambini.

- Siamo una realtà, non ombre soltanto, mamma. Se vuoi, te ne diano un segno. Pochi minuti fa il povero babbo é morto, ma non é con noi.

Detto questo, disparvero, dopo avermi ben fissata con quell'espressione crucciosa. Non so quanto tempo rimasi col fiato sospeso, in un'immobilità statuaria, senza sentimento, dominata solo da un terrore indescrivibile.

 

In cerca di luce

 

Mi scossi quando giunse all'orecchio il suono della campanella delle suore dell'adorazione perpetua. Era il segno della Messa delle cinque. Saltai giù dal letto, mi vestii alla meglio, non ricordo nemmeno se mi pettinai bene, e in pochi minuti mi trovai, con cinque o sei donnette, tra i banchi della cappella semibuia e fredda da tremare. A un bisbiglio laterale, mi accorsi che il cappellano era nel confessionale. Appena lo vidi libero, senza nemmeno pensare a quel che facevo, fui alla grata, per raccontargli ciò che mi era capitato di udire e di vedere.

- Mi dica soltanto se é vero che esistono gli spiriti, reverendo, e se noi possiamo vederli e udirli parlare, chiesi, così, in modo sbrigativo.

- Nessun dubbio che esistono, figliola.

- Esistono, dice?

- Quanto poi a vederli, per sé, anche questo è possibile, se il Signore, per i Suoi fini misteriosi, credesse di permetterlo. Ma in queste cose bisogna accertarsi bene che non si tratti di giochi della fantasia o di trucchi.

- Quali trucchi?

- Ha assistito a qualche seduta spiritica?

- Nessuna seduta spiritica.

- E allora stia attenta all'immaginazione. è capace di tutto, anche di dar corpo e voce alle ombre. è quello che io temo per lei. La sento troppo agitata, troppo sconvolta. Lei mi ha fatto un racconto così arruffato...

- Allora sono una pazza?

- Io non sono autorizzato a dirle questo. Posso però consigliarle di farsi visitare da qualche buon medico. Qui ci vorrebbe uno psichiatra.

- Ad esempio?

Fece un nome celebre.

- Intanto, perché non cerca di confessarsi, di mettersi in grazia di Dio?

- Ora mi é impossibile, reverendo, non sono proprio disposta, e lasciai la grata per uscire quasi di corsa dalla chiesetta.

 

In giro per la città con l'angoscia nel cuore

 

Fuori ancora non era giorno. Dovetti girare come una donna che batte il marciapiede. Qualche raro viandante si voltava a guardarmi con occhio sospettoso. Si vedeva che camminavo stanca e senza mèta. Giunta ad un angolo, un metropolitano mi chiese risolutamente di chi andassi in cerca.

- Mi indichi un bar.

- Qui sulla destra, a pochi passi ce n'è uno.

Presi quella direzione. Il barman aveva appena aperto.

- Un cappuccino.

- La macchina ancora non é pronta, favorisca accomodarsi qualche minuto.

Andai a cacciarmi in un angolo che mi parve abbastanza nascosto. Ma questo dovette servire ad attirare di più l'attenzione su di me, quando subito dopo cominciarono a entrare gli avventori.

- Donne che lavorano di notte, udii borbottare tra il barista e un uomo alto, calvo, con una faccia da burlone nato e intraprendente. Li avrei immediatamente schiaffeggiati tutti e due. Non vedevo l'ora che l'uomo alto se ne andasse via. Egli, invece, dopo aver sorbito un caffè, se ne venne dritto dritto verso di me, con la voglia evidente di attaccare a parlare.

- Permette, signorina?

- Per sua norma, sono una signora e non permetto nulla.

- Potrei esserle utile in qualche cosa...

- In quella di andarsene e di lasciarmi in pace.

- Lei dev'essere molto stanca: qualche grosso dispiacere o deve aver lavorato molto. Di qui non si sfugge.

Pur di liberarmi da un sospetto così maligno sul mio conto, risposi subito:

- Un grosso dispiacere: mio marito, dietro una falsa denuncia, è stato preso e spedito al confino.

A queste parole, quell'uomo divenne visibilmente serio e umano. Mi sedette di fronte:

- Quando é accaduto questo?

- Otto o dieci giorni.

- Saprebbe dirmi dove lo hanno mandato?

- A che servirebbe?

- Potrei esserle utile: so di contare su buone amicizie nel partito; mi favorisca il nome di suo marito.

Glielo diedi, ma con ostentato scetticismo.

- Lui? Ma lo conosco! Abbiamo lavorato insieme per circa tre anni!

I particolari che diede erano esattissimi.

- Sono spiacentissimo di ciò che le capita, signora. Ma spero di poter fare qualche cosa per lei. Forse oggi stesso potrei farle sapere qualche cosa. Mi favorisca il suo indirizzo. Preferisce che le scriva oppure che venga di persona?

- Si regoli come crede, purché mi faccia sapere qualche cosa, e gli diedi senz'altro il mio indirizzo. Avutolo, immediatamente se ne andò.

 

La conferma: mio marito era morto


Quella sera stessa, mentre mi trattenevo a rivedere certe carte di mio marito, udii squillare all'uscio. Era l'uomo visto quella mattina al bar. Egli mi guardò con l'aria di chi non ha buone cose da dire.

- Su, mi dia subito questa cattiva notizia.

Strabiliò di stupore:

- Come ha fatto a saperlo! Glielo hanno già comunicato? Ma come ha fatto?

- Ancora nessuna comunicazione, signore, e lo invitai a sedere.

- E allora come ha fatto a capire che ho una cattiva notizia?

- Un presentimento.

- La notizia é giunta soltanto poco fa. Aveva un'angina suo marito?

- Si, un poco, da qualche anno.

- Un colpo di angina, signora.

- Quando, a che ora?

- Durante la notte scorsa.

Dovetti cadere non so come, fuori di me, fulminata da quella conferma e più ancora dallo sgomento per gli esseri misteriosi che mi avevano dato quell'annuncio, forse nell'ora precisa che mio marito moriva.

- Ho paura d'impazzire!

Fu la sola cosa che ebbi la forza di gridare, poi non mi accorsi più di nulla. Quando rinvenni, mi trovai a letto, svestita, con mia figlia che mi dormiva avvolta in una coperta a lato e al fianco una suora infermiera fatta venire d'urgenza quella notte stessa.

- Come si sente, signora?

Avevo la gola chiusa da qualcosa che m'impediva di parlare.

- Vuol prendere un cordiale? Provi. Si sentirà meglio.

Il mio silenzio dovette sembrarle un consenso. Ma appena inghiotti, rimisi subito tutto con una violenza da schiantarmi.

- Dimmi che hai, mamma?, fece mia figlia svegliandosi e stringendomi tra le braccia.

Mi accorsi che lei non sapeva ancora nulla della morte di suo padre e con un cenno imposi a tutti di non parlarne. Dopo essermi liberata dai conati di vomito, mi sentii meglio. Guardai l'orologio, erano le cinque.

- Non è stato nulla, figlia mia. Ieri ero un po' stanca. Solo un po' di svenimento, non aver paura. Più tardi mi alzerò. Mi sento già abbastanza bene. Tu intanto vai a dormire di là. Su, non dirmi di no. Qui c'è la suora con me.

Appena andò via e mi accorsi che si era chiusa nella sua cameretta:

- Mi dica, suora, da che ora lei è qui?

- Fui chiamata quasi subito dopo la sua crisi. Mi fu detto quello che le è accaduto e consigliai tutti di non dir nulla alla signorina. Perché è bene che glielo dica lei, povera, cara signora.

- Grazie, grazie proprio di cuore. Ma quelle voci che mi è parso di udire nel sonno? Mi chiamavano.

- Effetto della crisi, signora. Sua figlia certo non l'ha chiamata, perché è stata sempre tranquilla, dopo essersi addormentata.

Avrei giurato di aver udito, come nelle altre notti, quelle voci chiamare, distinte, vicinissime. Più tardi, quando la suora ebbe svegliato la domestica, chiese di andarsene.

- Non mi pare le occorra altro. Soltanto una gran forza dal Signore e per questo anch'io pregherò volentieri. Il colpo è stato forte, chi può negarlo? Ma io sono sicura che chi sta pregando per lei è proprio lui, suo marito. Mi hanno detto che era tanto buono. Si faccia coraggio. Il Signore non l'abbandonerà. Ascoltavo ora come un'ebete.

Al suo saluto di addio risposi con un cenno insignificante e distratto.

Il perdono di Dio

 

Verso le dieci ebbi la forza di alzarmi. Dopo un buon caffè mi sentii addirittura di poter uscire, nonostante le sgridate e le resistenze di mia figlia e della domestica. Dissi loro di non poter assolutamente farne a meno. Andai infatti dalle suore lì vicine e chiesi del cappellano. Gli raccontai tutto: le voci che avevo sentito nuovamente, ciò che avevo visto, che avevano detto e che si era avverato.

- E ora, prima di andare dal medico, sono qui da lei. Mi dica, per favore, che cosa devo pensare. Come devo regolarmi con questi fenomeni? Se devo andare senz'altro dal medico, lei capisce, mi prenderà per pazza e nessuno mi salverà dal finire in manicomio. O per lo meno mi tratterà da allucinata.

- Figliola, a dirle la verità, io stesso non so che cosa pensare. Forse un avviso di Dio. Forse un fenomeno di telepatia.

- Ma Dio ha mai permesso che esseri che sono al di là siano apparsi recando un messaggio a noi che siamo di qua?

- L'ha permesso, figliola. Mi pare di averglielo già detto. La cosa è ben possibile. Ma nel suo caso vorrei proprio che ci fosse l'occhio e l'aiuto di un medico. Quello che le indicai mi sembra fatto per lei. Intanto, perché non si rimette in pace con Dio mediante una buona confessione? Se c'è circostanza in cui lei dovrebbe sentirne il bisogno mi pare sia proprio questa. Procuri soprattutto di meritare l'aiuto del buon Dio.

- Mi avevano parlato così anche quando mi esortavano a pregare, mi scappò di dire.

- E questo che cosa vuol dire? Che sappiamo noi delle vie di Dio? Che cosa sa lei, se non si stia servendo di tutto questo per attirare a sé un'anima che ha bisogno della Sua misericordia?

- E a Dio che cosa può importare della salvezza della mia anima, se io gliene ho strappate sette? Come fà lei a provarmi la possibilità che io sia perdonata?

Quello che provocò nell'anima del sacerdote questo mio modo di parlare dovette essere molto strano e doloroso. Per me fu provvidenziale. Mentre poco prima lo avevo giudicato piuttosto freddo, di scarso sentimento e forse poco sensibile ai miei problemi, notai ora che la sua anima era ben diversa. Egli si trovò impegnato a dover difendere l'infinita e inesauribile bontà di Dio contro chi non ne aveva mai avuto un concetto esatto e si trovava sull’orlo della disperazione. Ci fu una specie di predica lunga abbastanza, ma che ascoltai volentieri e mi fece del bene, come ha continuato a farmelo sempre, specie in certe ore più dolorose, quando quell'orribile tentazione si rinnovava. In sostanza, egli finì per dirmi ciò che non avrei mai creduto.

- Metta su un piatto d'una bilancia tutte le sue colpe commesse in passato, e sull'altro questo solo peccato di disperazione in cui lei è tentata di cadere: Dio rimarrà più offeso da questo solo peccato, che va a ferire il Suo Cuore, che non da tutti gli altri.

Soggiogata da quel suo linguaggio così commosso e persuasivo, gli dissi che volentieri avrei fatto la mia confessione.

- Ma com'è possibile, però, rifare una storia così triste?

- Nulla, invece, di più facile, purché abbia soltanto buona volontà, e io sono qui ad aiutarla.

Dire che quel sacerdote mi cavasse di bocca tutto ciò che avrei dovuto dirgli, sarebbe poco. Di certi peccati egli mi aiutava a rivelargli anche le circostanze più dimenticate. Ebbi la sensazione di aver davanti un uomo ispirato dall'alto: abbandonandomi a lui con fiducia, provavo un sollievo intimo e nuovo. Ad ogni rivelazione era come un peso che mi si toglieva dall'animo. Alla fine mi sentii rinata, e piansi.

- Certo, il suo passato è stato molto triste, povera figliola. Ma vede come il Signore è stato buono con lei? Invece di stancarsi, l'ha attesa con pazienza infinita. Egli voleva fare di lei un trofeo della Sua misericordia, e il sentimento vivo di non meritarla è una riprova che la sua confessione è fatta bene. Glielo dichiaro con la mia autorità di sacerdote. Dio le ha perdonato tutto. Non pensi più al suo passato se non per ringraziare Dio e amarlo davvero. Cominci da oggi una vita nuova. Sarà probabilmente una vita di espiazione, ma sostenuta dalla grazia del Signore.

Ricordai in quei momenti ciò che più volte mi aveva ripetuto la suora portinaia dell'istituto dove accompagnavo mia figlia: «Si parla tanto male della confessione; ma chi è che parla così? Chi non la conosce. Lei non troverà mai uno che riceve spesso questo sacramento e che ne parli male, o cerchi scuse per starne lontano».

- E ora, che cosa mi consiglia, padre? Devo andare dal dottore o no?

- Si regoli come crede.

- Preferisco mi dica lei.

- Se quei fenomeni dovessero ripetersi, sarà bene, anzi necessario che ci vada, altrimenti non ne vedo la necessità.

- Posso dunque rimanere tranquilla sul mio passato?

- Deve rimanere tranquilla, e sappia questo: la prima e più bella riparazione che deve offrire al Cuore di nostro Signore è appunto quella di credere nella Sua misericordia e nel perdono che le ha accordato.

- Ma quelle povere anime?

Qui la sua voce si fece nuovamente autorevole e piena di forza.

- Quello che è stato è stato. Ora ubbidisca al ministro di Dio. Vada in pace e procuri di non commettere più peccati.
In tutta la mia vita non mi ero mai confessata come ora.

- è un'immensa grazia quella che il Signore le ha fatto, aveva detto il cappellano, e pur di metterla in condizione di riceverla, non mi meraviglierei se avesse permesso, in via eccezionale, di farle udire la voce dei suoi figli soppressi prima di nascere; ma posso sbagliarmi, e forse non è prudente forzare il mistero.

Quando mi trovai sola tra i banchi della chiesetta delle suore adoratrici, ripensai una per una le parole dette da quell'uomo di Dio, e le trovavo tanto vere e consolanti. E ricordai pure queste altre parole: «Le ho detto che il Signore le perdona tutto, non già che gliene risparmierà l'espiazione. E se questa verrà, si ricordi che è una grazia».

La riparazione

 

Passò circa un mese senza notevoli avvenimenti. Il cappellano delle suore divenne per me il mio confidente e il consigliere in tante cose. Avendogli chiesto un giorno che cosa avrei potuto offrire al Signore in cambio di quelle povere anime: «Faccia così - mi disse - in loro sostituzione procuri di adottare altrettanti bambini pagani da far battezzare col nome che avrebbe imposto alle sue creature». Questa idea mi entusiasmò. Così cominciai a inviare mensilmente ad un padre missionario tutti gli aiuti che potevo per far battezzare e mantenere in un orfanotrofio dei bambini. Ricordo che questa pratica la insegnai anche a mia figlia; così divenne essa pure madrina di un bel gruppo di bambini battezzati coi nomi designati da lei: i più avevano il nome di suo papà. Quando poi potemmo ricevere le fotografie di quei nostri figlioletti lontani, esse ebbero un posto d'onore sulle pareti del salottino, e spesso anche dei fiori.

L'espiazione

 

Dopo qualche tempo di calma e di tranquillità relativa, il tormento delle voci cominciò di nuovo. Le udivo non nel sonno o nel dormiveglia, ma durante le azioni più svariate, quando ero sola e le udivo io sola.

- Mamma, perché ci hai uccisi?

Che cosa avrei potuto rispondere? Ripiegandomi su me stessa tacevo e piangevo, mentre sentivo che quelle voci erano come una lama che frugava in una vecchia ferita. Un giorno mi scappò di dire:

- Sì, figlioli miei, riconosco la mia colpa e ve ne chiedo perdono.

Ma queste parole, per quanto ripetute, non ebbero mai risposta.

- Ditemi se posso salvarmi.

- Perché lo chiedi a noi?

Che strana domanda, pensai tra me, e non osai più ripeterla. Era destino che questo fenomeno, col suo ripetersi, mi portasse a una tale depressione nervosa che, dietro insistenza del confessore, dovetti rivolgermi a uno psichiatra. Fu una visita lunga, accurata, scrupolosa. Ma non so come, dopo pochi giorni mi trovai internata in una casa di cura. Fu un mezzo tradimento del medico, e specialmente di alcuni miei stretti parenti. Posso tuttavia giurare di non aver mai perduto per un istante la coscienza di me stessa. Sono ancora oggi in grado di riferire quello che si diceva e che accadeva attorno a me. Soprattutto ricordo il male che mi facevano le parole di compatimento di mia figlia, che credeva nella malattia di sua madre e acconsentiva, d'accordo col suo fidanzato, a tenermi in quella casa.

 

Furono tre anni di reclusione ossessionante e di martirio. Ricordo che non passò un giorno senza che pensassi all'espiazione predettami dal cappellano delle suore, il quale continuò ad assistermi spiritualmente in modo tutto paterno. Qualche volta accettavo, qualche volta mi ribellavo, ma la mia disposizione abituale era quella di voler espiare. Le voci continuarono intanto a farsi sentire con intermittenza e le reazioni che ne derivavano non facevano che confermare infermiere e dottori sul mio stato «indubbiamente patologico». Eppure avevo la certezza di non essere malata ma soltanto di sottostare a una lacerazione interiore indescrivibile. Nei momenti di maggior calma non cessavo di pregare; ma anche questo veniva considerato come uno degli elementi testimonianti il mio stato di infermità mentale.

Rinasce la speranza

 

Un giorno, fu appunto tra una preghiera e l'altra che mi balenò un'idea. Avevo sentito parlare di un sacerdote santo, le cui preghiere erano molto efficaci presso Dio. Chiesi a una suora di portarmi l'occorrente per scrivere una lettera. Anche se con qualche difficoltà, fui accontentata. Mentre terminavo di scrivere, venne a visitarmi mia figlia col fidanzato. Affidai a costui la lettera; egli ebbe la delicatezza di farmi assistere all'atto di imbucarla nella cassetta della posta all'interno della clinica, visibile attraverso l'inferriata della mia camera. Attesi una ventina di giorni. Ma quando la risposta venne io non so che cosa dovette operare su di me e sugli altri.

 

Resta il fatto che di lì a non molto fui dimessa. «Io sono certo che il Signore, per intercessione della Madonna, non mancherà di farle la grazia, e anche presto», aveva scritto quell'uomo di Dio. Quando la cosa si seppe in clinica, non so quante lettere avrà ricevuto da ammalate e dai familiari. Poco dopo ci fu il matrimonio di mia figlia col giovane appena laureato in medicina. Come condizione alla loro unione volli che la nuova famiglia fiorisse nella casa di mio marito, che era abbastanza ampia per accoglierli, e questo giovò a crearmi attorno un clima di maggiore serenità. Ma le sofferenze interiori non cessarono mai del tutto. Il pentimento sincero di quanto avevo commesso, la grazia della speranza alimentata dai sacramenti, l'autorità del confessore valsero certamente a non farmi scivolare di nuovo verso la disperazione. Ma tutto questo non riuscì mai a liberarmi dall'atroce amarezza di sette maternità interrotte.

 

Mi hanno assicurato che in paradiso non vi sarà più nessun ricordo che possa dare amarezza e menomare la beatitudine degli eletti. Ma penso che se per poco questo miracolo di dimenticanza fosse sospeso, il cielo stesso diverrebbe per me un inferno, tanto è triste per una mamma, quando lo ha ben compreso, il pensiero di non vedere nella beatitudine celeste le anime che Dio aveva creato per quella, e che solo il delitto d'una mamma ve le ha escluse per sempre. Se lo avessi compreso prima! Renderci rei di delitti così atroci; portarceli addosso per tutta la vita, senza poterne mai riparare le conseguenze, credetemi, é una cosa orribile! Ma commettere simili delitti, e non sentirne il peso, e non provarne orrore, e guardarli come la cosa più naturale, dev'essere una cosa diabolica! Mi sembra la caparra della maledizione di Dio!

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