di don Giuseppe Pavani
Breve introduzione
Sembra quasi impossibile che questo scritto, redatto in forma di libretto da un sacerdote di Adria (Rovigo), sia stato pubblicato grosso modo a metà degli anni '50 1. Solo pochi anni più tardi, nella seconda metà del decennio successivo, dopo la promulgazione da parte di Paolo VI (1897-1978) del Decreto conciliare Nostra Ætate (28 ottobre 1965), sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane, e l'abbandono della dottrina cattolica tradizionale sul popolo ebraico e sul giudaismo talmudico, il culto di tutti i bambini uccisi ritualmente da ebrei nel corso dei secoli scomparve improvvisamente dalle chiese di tutto il mondo.
Sopra: Paolo VI e il Decreto conciliare Nostra Ætate.
Il loro nome e la loro memoria sono caduti nell'oblio più totale, riposti nel cassetto dei «peccati» di un passato da dimenticare da una gerarchia che, in nome del dialogo interreligioso, vuole apparire sempre più al passo con i tristi tempi in cui viviamo. Di certo, don Giuseppe Pavani - il sacerdote che ha scritto questo opuscolo - e buona parte del clero rodigino, non sospettava minimamente che di lì a qualche anno il culto di San Domenichino sarebbe scomparso.
É come se l'ecumenismo li avesse uccisi per una seconda volta, e li avesse privati della gloriosa corona che spetta ai martiri di Cristo. Nel corso di duemila anni di Storia della Chiesa non si era mai visto nulla del genere. All'indomani del Concilio Vaticano II (1962-1965), i resti mortali di questi piccoli innocenti, innalzati dalla Chiesa alla gloria degli altari e venerati da tantissimi fedeli per secoli, sono stati occultati in tutta fretta, e i loro nomi sono stati cancellati dal Calendario dei Santi, quasi fossero una vergogna o una pietra d'inciampo per la fede dei cristiani.
Preghiamo dunque San Domenichino del Val affinché interceda per noi chiedendo al il Signore di affrettarsi a liberare la Sua vigna dall'imperante eresia neomodernista, e che la fede cattolica integra e senza compromessi possa tornare a risplendere su tutta la terra.
Due parole di presentazione
Eccovi, piccini cari, la breve vita del vostro Patrono, il chierichetto martire San Domenichino del Val. Voi già la conoscete sin da quando uscì, qualche anno fa, la prima edizione. Ora essa viene ristampata tale e quale, senza aggiunte e senza mutazioni, perché ha avuto tante approvazioni, tra le quali mi piace qui ricordare quella dell'Osservatore Romano, che è il giornale ufficioso della Santa Sede, e quella dello stesso Bollettino della Diocesi di Roma, che è la Diocesi del Papa.
Ma il più ambito elogio, vorrei dire il suo vero collaudo, questa piccola vita l'ha avuto dall'Arcivescovo stesso di Saragozza, che è la città dove si conserva il corpo del chierichetto martire. S. E. Mons. Rigoberto del Val (1870-1955) mi scrisse una lunga lettera affettuosa e paterna, in cui esprime anche tutta la sua gioia perché il piccolo martire di Saragozza è tanto amato e invocato dai chierichetti della Diocesi di Adria.
E allora leggetelo questo libriccino; e, anche se esso è una ben povera cosa, conservatelo come dolce ricordo di questa vostra prima età. Quando sarete grandi, quando specialmente sarete arrivati agli ultimi anni della vostra vita, ritornerete col pensiero a questa vostra età innocente, che ora trascorrete ai piedi dell'altare, sotto lo sguardo di Gesù e di Maria. E questo ricordo sarà un balsamo per il vostro cuore.
Sopra: la copertina del libretto di don Giuseppe Pavani.
Festa di bimbi
È la festa di San Domenichino, che ricorre il 31 agosto. Nella Spagna, e specialmente a Saragozza, è una solennità grandiosa, ed è celebrata dai fanciulli, perché il loro Santo, quando morì, aveva appena dieci anni. E a capo di tutta quella moltitudine di bimbi festanti sono i chierichetti, perché Domenichino era stato anche lui chierichetto. Ma che vivacità in tutti quei frugolini! Essi aspettano con ansia questa festa, e se la preparano essi stessi con gioconda animazione. E quel giorno ci son proprio tutti, non ne manca uno.
E ogni anno sempre così, sempre lo stesso spettacolo, che è tra i più simpatici di tutta la Spagna. Sono già sette secoli che si celebra questa festa. Già fin da quando morì martire Domenichino, i fanciulli di Saragozza andavano a gara nel portare fasci di fiori al suo altare. Era tutta una gloria di drappi preziosi e di gemme, di luci, di bimbi e di canti. Fin sulla cima del campanile i fanciulli salivano quel dì a portar lampade per far festa al loro Santino.
Sopra: questa immagine testimonia che la devozione a San Domenichino del Val non si è spenta completamente.
E nel momento più solenne, quando tutta la folla in piedi cantava a voce spiegata il Magnificat, due bimbetti scelti apposta recavano due ramoscelli in fiore sopra vassoi d'argento, e li porgevano con celestiale semplicità al ministro celebrante. Quindi si snodava una lunga processione, tutta formata di fanciulli, i quali accompagnavano al palazzo dell'Arcivescovo il corpo del piccolo martire, che veniva portato da un Monsignore, rivestito di cotta e stola.
Pareva un corteo di cherubini, che s'aggirasse giulivo tra le aiuole del paradiso. Quando il corteo era arrivato, l'Arcivescovo, adorno delle insegne pontificie, si inginocchiava a venerare il piccolo martire. A cerimonia finita, l'Arcivescovo offriva in dono ai minuscoli festeggianti cinquanta belle monete d'oro; e altre cento ne regalava il Capitolo dei Canonici. E ci fu un anno in cui un pio sacerdote, canonico anche lui e anche dottore, offrì in dono una lampada d'argento, che doveva ardere sempre davanti al sacro corpo del martire, e lasciò anche per testamento che fossero date a quei bimbi cento monete d'oro ogni anno nel giorno del loro piccolo Santo Patrono.
Sopra: bassorilievo marmoreo in onore del piccolo martire eretto a Saragozza
Dove nacque Domenichino?
L'abbiamo già detto: a Saragozza, in Spagna. Questa città ricca di storia e di gloria, esisteva fin dai tempi dell'antica Roma. Non ebbe sempre questo nome: prima di Cristo si chiamava Saluvia; poi dal nome del primo imperatore romano fu detta Cæsaraugusta, donde le venne poi il nome di Saragozza. Anche allora era una città grande e bella e potente. Sant'Isidoro di Siviglia (560-636) diceva ai suoi tempi che essa era la più bella città della Spagna.
Sopra: Sant'Isidoro di Siviglia, Vescovo e Dottore della Chiesa.
La sua bellezza fu spesso, anche per lei, come per la nostra Italia, «fonte amara di pianti». Assalita tante volte nei secoli da poderosi nemici, si difese sempre con intrepidezza animosa. L'ultima sua impresa sfortunata e gloriosa fu quando, assediata dai francesi di Napoleone I (1769-1821), combatté contro gli aggressori con fierezza magnanima fino a veder morire in poche settimane 54.000 dei suoi figli.
Capitolò il 21 febbraio del 1809: da quel dì ebbe il titolo superbo di siempre héroica. Anche adesso è tra le più graziose città della Spagna. È capitale dell'Aragona e capoluogo della provincia omonima di Saragozza, e oltrepassa i 200.000 abitanti. Domenichino vi nacque nel 1240.
Presagi di gloria
Il babbo di Domenichino aveva nome Sancio del Val, e la mamma Isabella; tutti e due cristiani di tempra antica, animati da quella fede robusta, che è tuttora gloria purissima del prode e cavalleresco popolo di Spagna. Sancio era notaio della cattedrale; e quando nacque quel suo figliuolo, volle chiamarlo al santo battesimo con il nome del grande fondatore dei domenicani, spagnolo anche lui, che pochi anni prima era stato dal Papa proclamato Santo.
E così, il bimbo fu chiamato Domenico; ma, piccino com'era, tutti lo chiamavano, nella dolce lingua di Spagna, Dominguito, che vuol dir Domenichino. Ma sentite: quando egli nacque, i suoi parenti si accorsero che recava impresso attorno al capo il segno di una corona, e sul braccio destro quello di una croce. Che cosa volevano dire quei due segni misteriosi? Mah! Nessuno allora lo seppe. Pochi anni dopo si poté vedere che quella croce e quella corona erano i simboli del martirio e della gloria, con i quali Domenichino doveva entrare nella seconda vita come un trionfatore, rutilante del proprio sangue.
Candore di giglio
Domenichino cresceva come un giglio in un giardino profumato di fragranze celestiali. La sua casa era come un santuario: babbo e mamma lo seguivano con gli occhi e col cuore. Appena la sua intelligenza cominciò ad aprirsi, gli fecero apprendere le prime nozioni del sapere, sicché a sette anni sapeva già leggere e scrivere benino, ravvivando così in loro le più liete speranze. E lo vollero sempre vicino al Signore.
Si potrebbe dire che, dopo la casa, fu la chiesa il luogo dove il bimbo trascorse il più gran tempo della sua brevissima esistenza. Fatto grandicello, fu ascritto tra i piccoli cantori della cattedrale, o, come dicono adesso, tra i pueri chorales. E cantava con gli altri chierichetti le lodi del Signore. Com'è bello lodare Iddio con il canto nel sacro tempio, che è la sua casa, la casa dell'Amore!
Tutto nella chiesa esalta il Signore: gli altari, le sacre immagini, i fiori, l'arte, che dispiega la sua magnificenza in forme maestose e ridenti; ma più che tutto la preghiera e il canto dei bimbi. Le loro voci melodiose e squillanti sono il grido festoso dell'innocenza, il quale si unisce e si fonde in armonia gioconda con le voci degli altri Angeli, che cantano «gloria a Dio nel più alto dei cieli».
Chierichetto
Domenichino fu chierichetto della Cattedrale, proprio come i chierichetti delle nostre chiese. E indossava la veste rossa, come si usava nella sua chiesa, e la cotta candida, e serviva all'altare la Santa Messa e le altre funzioni con le sue manine giunte, gli occhi modesti, l'atteggiamento pio. Si può ben pensare quale fosse in quei momenti il cuore della mamma sua: una mamma, che abbia un figliuolo così, è la donna più felice di tutta la terra. La gioia, che le inonda l'anima, non trova più la via di esprimersi con parole di riconoscenza al Signore: le sue preghiere diventano lacrime, che scendono giù dagli occhi tranquille, copiose, dolcissime!
I furori di Satana
Ma tanta dolcezza nel cuore della mamma doveva ben presto mutarsi nel più cupo e straziante dolore. A quei tempi nella città di Domenichino, Saragozza, vi erano parecchi ebrei, che erano gente avvezza ai tradimenti, al sangue e ai delitti. Essi odiavano i cristiani d'un odio furente, e li perseguitavano in tutti i modi e con tutti i mezzi, non escluse le armi omicide.
Sono così numerose presso tutti gli storici le testimonianze di quel loro furore contro i seguaci di Cristo che è superfluo qui farne anche solo un cenno. La rabbia degli ebrei, che all'inizio dei secoli cristiani si era scagliata con impeto sacrilego contro il Dio degli innocenti nella tragedia del Calvario, e che già prima aveva versato sangue innocente per mano di Erode quando nacque Gesù a Betlemme, continuò poi a lungo le sue stragi nefande, destando l'orrore in intere nazioni e portando la desolazione nel cuore di innumerevoli madri.
Il fiorentino Paolo Sebastiano Medici (1671-1738), ebreo anche lui, che più tardi, convertitosi alla religione cattolica, continuò a voler bene e a far del bene ai suoi vecchi compagni di fede, scriveva in un suo libro, già due secoli fa:
Sopra: frontespizio dell'opera Riti e costumi degli ebrei (1736), dell'ebreo convertito e sacerdote Paolo Sebastiano Medici.
Ma perché tante uccisioni di fanciulli e di bambini cristiani? Perché gli ebrei in certi loro riti tenebrosi facevano uso di sangue cristiano, e preferivano a questo scopo il sangue di piccoli innocenti.
Fu così che...
gli ebrei mandarono a morte:
A Ratisbona, in Germania, altri sei fanciulli furono rapiti e uccisi; e parecchi altri in altri luoghi furono pure torturati e uccisi. Insomma, il suddetto ebreo dottor Paolo Sebastiano Medici fece su questo argomento in un suo libro delle rivelazioni che fanno rabbrividire; tra l'altro, egli fa questa dichiarazione: «Ognuno sa che sono piene le storie delle uccisioni dei bambini, fatte dagli ebrei...».
Sopra: antica stampa (1627) che illustra il martirio di sei bambini per mano di ebrei a Ratisbona.
Perciò il Beato Bernardino da Feltre (1439-1464), francescano, poteva ben dire fin dai suoi tempi: «Gli ebrei sono venditori di lacrime e bevitori di sangue cristiano». Adesso però le cose non sono più così; e gli ebrei, o almeno la maggior parte di essi, si son fatti più socievoli e umani. Ma allora, ai tempi di Domenichino, e anche prima, e anche per parecchi secoli dopo, commisero contro cristiani tali atti di ferocia da disgustare le belve più sanguinarie.
Sopra: Beato Bernardino da Feltre.
Il patto infernale
Siamo nel 1250, a Saragozza. In una notte una masnada di ebrei sta raccolta in adunanza segreta. Hanno l'anima accesa d'odio furibondo; i loro occhi schizzano fiamme. Dopo una breve discussione, prendono una decisione feroce: rapire un fanciullo cristiano per fare strazio del suo corpo, come i loro maggiori avevano fatto dal Corpo di Gesù.
La detestabile impresa sarà largamente compensata dalla Sinagoga: colui che consumerà il delitto avrà un vistoso premio in denaro. Proprio come il patto di Giuda, il venditore di Cristo. Giuda non fu il solo a compiere un delitto per un pugno di monete. L'oro ha una lunga storia di aberrazioni, di lacrime e di sangue; perché gli uomini, chiamati a un destino immortale, sono capaci di salire alle più fulgide altezze della virtù e dell'eroismo, ma anche di precipitare negli abissi più ignominiosi.
La tragica notte
Nella congrega infernale fu dunque deciso di dare un lauto compenso a chi portasse via di nascosto o rapisse apertamente un bimbo cristiano, e lo consegnasse a quell'infame Sinedrio perché fosse ucciso. Per chi volesse proprio conoscere le parole precise della diabolica decisione, le trascrivo qui dalla storia del piccolo martire:
«...ut quicumque
occulte furaretur, aut raperet parvulum Christianum, et eis traderet
ut morti daretur, esset exemptus ecc...» («...affinché chiunque
rubasse o rapisse un piccolo cristiano, per consegnarglielo affinché
fosse messo a morte, fosse esente ecc...»).
Tra quei demoni incarnati vi era un certo Mosé Albaiuceto, ebreo naturalmente anche lui. Finita l'adunanza, egli uscì subito, promettendo ai compagni che sarebbe tornato con la piccola vittima da dare in pasto alle loro brame sanguinarie. Era sera inoltrata. Domenichino aveva fino allora servito alle sacre funzioni, lodando il Signore con canti e preghiere nel Tempio santo insieme con gli altri chierichetti; e ora tornava a casa con la gioia sul volto e nel cuore.
In quella mistica penombra, sotto il cielo stellato, il piccolo innocente sognava forse schiere di santi e di angeli, alleluianti nei candidi fulgori del paradiso, sotto lo sguardo di Gesù, che di tutti i celesti è letizia ineffabile ed eterna. Forse egli contemplava estasiato con la mente il sorriso di Maria, la Mamma buona, pia e soave di tutti i chierichetti; e gli pareva quasi di sentire la mano lieve di Lei posarsi sul suo capo come una carezza; e a quel pensiero gli si inumidivano gli occhi. A pochi passi dall'agnello innocente stava in agguato il lupo rapace.
Albaiuceto scorge il bimbo, balza fuori dal suo nascondiglio, gli si getta addosso, l'agguanta per la vita, lo avvolge con gesto rapido nel mantello, perché le grida di lui non siano sentite, e torna in un attimo al covo da dov'era uscito, e dove lo attendevano le altre belve, avide di sangue.
Come Gesù
La giovane vittima viene accolta con diabolica voluttà. Ora egli sconterà la colpa di essere cristiano; e dovrà soffrire tutti i tormenti che tanti secoli prima soffrì Gesù, perché di Gesù egli è un simbolo vivente. Gesù fu tormentato nelle sue carni: anche Domenichino sarà tormentato con inaudita ferocia nel suo piccolo esile corpo; Gesù fu crocifisso con chiodi alle mani e ai piedi: anche Domenichino sarà confitto con chiodi ad una parete; Gesù ebbe il petto squarciato da una lancia: il piccolo martire avrà pure il petto aperto da un coltellaccio.
Sotto i colpi del martello le tenere membra si divincolano in uno spasimo atroce: le belve della foresta avrebbero avuto pietà, ma quei carnefici hanno invece sul volto un ghigno beffardo. Domenichino gronda sangue da tutto il corpo, sospira, gira attorno gli occhi smorti, imploranti pietà. Poi il respiro si attenua e viene meno; il bimbo non ne può più. Dissanguato, sfinito, esclama con un filo di voce: «Gesù!... Gesù»!, e spira.
Nella casa di Domenichino
Cominciava già a far buio, e il bimbo non era ancora tornato. La mamma era un po' in pensiero. «Come mai stasera tarda tanto a venire? Forse... le funzioni saranno state più lunghe... forse ci saranno le prove di canto per domenica». Tuttavia non si sentiva contenta, e una lieve ombra le era scesa sul cuore. Oh, il cuore di una mamma!
E il tempo passava; e Domenichino non si vedeva ancora. La donna non poté più resistere: si buttò sulle spalle una mantellina, e uscì verso il tempio a incontrare il suo figliuolo. Ma prima ancora d'arrivare alla Cattedrale, dovette accorgersi che essa era chiusa, e che i sacerdoti e il sagrestano e tutta la gente erano tornati a casa. Tutto intorno era silenzio. Sconcertata, spaurita, ansante corse alla vicina casa del sagrestano; bussò alla porta, e chiese con la voce tremante se egli sapeva dov'era il suo figliuolo.
Il sagrestano rispose che l'aveva visto durante le funzioni con gli altri chierichetti, e che poi era uscito insieme con loro... «Madonna Santissima»!, esclamò Isabella, coprendosi il volto con le mani; ma dove sarà, mio Dio, dove sarà? L'uomo, vedendo le lacrime dell'infelicissima madre, ne ebbe pietà, e uscì tutto premuroso per accompagnarsi con lei nella ricerca del bimbo. Andarono difilato alla casa dell'arciprete; poi alle case di alcuni chierichetti; e tutti rispondevano la stessa cosa: che lo avevano visto in chiesa alle funzioni, che poi era uscito, e poi... non sapevano dire altro.
Alla mente della donna allora si affacciò vivo il ricordo di certe storie paurose di fanciulli, che erano stati rapiti da gente sconosciuta e poi uccisi; e le sorse in cuore un dubbio tremendo. Un sudore freddo le si diffuse per tutta la persona, le si offuscarono gli occhi, e cadde sulla strada come un cencio, priva di sensi. Il sagrestano, intenerito anche lui e sconcertato da quella scena pietosa, corse a chiamare dalla casa più vicina alcune persone, che lo aiutassero a portare quella poverina nella propria abitazione, finché fosse ritornata in sé.
La disperata ricerca
Il babbo di Domenichino era ancora fuori di casa per i suoi doveri di notaio. Quando tornò, vide la moglie accasciata sopra una sedia, con due donne al fianco. Si arrestò di botto, spalancando gli occhi. «Che c'è»?, chiese col cuore sospeso. «Isabella, che c'è»? Isabella non rispose; forse non sentì neppure la voce del marito, essendo ancora in deliquio. Rispose una delle donne: «Ah signor Sancio!... Che disgrazia... che disgrazia».
E scoppiò in pianto. «Come? Cosa c'è? Cos’è successo? Ditemi!... presto»! «Domenichino»..., disse tra i singhiozzi l'altra donna. «Domenichino? Mio figlio? Come? Dov'è»? La donna fece un gesto desolato, che esprimeva ben più delle parole. Sancio restò lì, come inchiodato al suolo. Il cuore gli martellava nel petto. Anche a lui si affacciò subito alla mente il ricordo di fanciulli rapiti dagli ebrei; e intuì la tremenda sciagura.
Si cacciò le mani nei capelli, e stringendo convulsamente il capo ed esclamò: «Mio Dio, mio Dio»! Poi con gesto risoluto si mosse, e scappò fuori della porta, come fosse inseguito. Chiamò il servo, fece allestire un cavallo, balzò in sella, e via disperato, senza sapere nemmeno lui dove andasse. Ruggendo come una belva ferita, spronava il cavallo, che si buttò in una corsa disperata. Uscì di città, pensando così in confuso che i rapitori dovevano averlo portato lontano. Quando incontrava qualcuno, rallentava la corsa per chiedere notizie del figlio.
Nessuno lo aveva visto, nessuno sapeva dirgli nulla. «Madonna Santissima»! - esclamò, volgendo ansiosamente gli occhi nel buio profondo - «ma dove sarà il mio Domenichino»? Girò il cavallo, e tornò indietro, assorto nei più angosciosi pensieri. Quando rientrò in casa, non c'era nessuno: Isabella era stata condotta, o meglio, portata di peso nel letto. Sancio, in quella penombra, in quel silenzio, si sentì solo, col suo cuore sanguinante.
Ebbe l'oscura previsione che non avrebbe più veduto il suo angioletto: gli parve che senza di lui la casa fosse deserta, senza pace e senza sorrisi, come era vuota ormai la sua povera vita: conturbato, sfinito, accasciato si lasciò andare sopra una sedia, chiuse la faccia tra le mani, e pianse a lungo inconsolabilmente. Domenichino intanto da più di un'ora era volato tra gli angeli: il suo corpicino in quella stanzaccia sotterranea penzolava inerte dalla parete, tutto raggrumato di sangue.
Astuzia diabolica
Quando quelle belve ebbero perpetrato il delitto, pensarono subito a nascondere il corpo del piccolo martire in un luogo dove nessuno potesse venirlo a sapere, affinché non fosse messa in pericolo la loro fama e la loro vita. Ma in qual modo avrebbero dovuto sottrarlo alle pronte e oculate indagini, che certamente avrebbero fatto i parenti del bimbo e più ancora la pubblica autorità?
Scavare una buca, magari assai profonda, lì entro il recinto della casa stessa, dov'era stato martoriato e ucciso, calarvi dentro il cadaverino, e poi coprirla, sia pure con la massima abilità, parve subito una decisione quanto mai pericolosa e da ripudiare subito: si sapeva bene che gli ebrei erano in sospetto presso tutti per questo genere di delitti, che in molte parti d'Europa, come in Germania, in Inghilterra, in Francia, in Italia e nella Spagna stessa non pochi di essi, colpevoli di infanticidi, erano stati scoperti e processati, e avevano scontato terribilmente la loro colpa con una morte ignominiosa.
Dunque, di seppellirlo lì in casa, neppur parlarne: sarebbe stato come un invitare le autorità sul luogo del misfatto, farsi arrestare subito, in attesa del processo, e poi del capestro. E allora? Allora decisero senz'altro di portarlo, in un momento opportuno, nel cuore della notte, presso il luogo dove l'Huerta sfocia nel fiume Ebro, appena fuori di Saragozza; scavare una fossa, calarvi dentro il corpicino, ricoprirla, e poi tornare alle loro occupazioni ordinarie, come se nulla fosse successo. Per quei chierichetti che studiano il latino, trascrivo qui le parole precise, che si trovano nella storia del nostro Santo:
«Et inde iudæi,
satagentes ne hoc nefas tam detestabile panderetur, eligentes tempus
opportunum, ad litus fiuminis lberi corpus Martyris occultarunt»
(««E quindi i giudei, cercando di evitare che un simile crimine
tanto detestabile fosse reso manifesto, occultarono il corpo del
martire sulle rive del fiume Ebro»).
Luce di cielo
Ma le povere astuzie umane si spuntano tutte e restano senza effetto, quando osano mettersi contro i sovrani disegni di Dio. E Dio volle compiere un miracolo per rivelare a tutti il sacrificio estremo del piccolo innocente, immolato in odio al Santo Nome di Cristo. Ed ecco come. Dopo che il piccolo martire era stato sepolto, alcuni pescatori, che erano soliti pescare nelle acque del fiume Ebro, lì presso alla città, una notte, mentre vegliavano alla custodia delle barche e delle reti, videro una cosa straordinaria: sul luogo, dov'era stato sepolto il corpo del fanciullo, apparvero delle luci splendentissime: una visione d'incanto.
La notte seguente si ripeté lo stesso fenomeno, nello stesso luogo; e così per alcune notti di seguito. Poiché la meravigliosa apparizione continuava, i pescatori pensarono bene di riferire la cosa ad alcuni cittadini di Saragozza. La notizia allora si diffuse in un baleno per tutta la città; e tutti naturalmente erano portati a congiungere insieme nel loro pensiero quelle luci inesplicabili con la scomparsa misteriosa del chierichetto, che pochi giorni prima aveva destato in tutta la popolazione tanto sdegno e tanta pietà. La gente diceva: «Qui c'è il dito di Dio. Vedrete che il Signore saprà far le cose per bene. Qui sotto c'è di sicuro qualcosa di straordinario. Eh, con Dio non si scherza! Quando ci si mette Lui, non la vince nessuno». E in tutti i cuori c'era un gran fervore di attesa.
Spettacolo incomparabile
Ben presto alcuni cittadini si recarono sul luogo dov'erano apparse le luci, e dietro le indicazioni dei pescatori scavarono presso la riva del fiume, e rinvennero il corpo del piccolo martire, privo del capo, e con le mani legate da funi. Il capo fu poi trovato, miracolosamente anche quello, nella casa dove il fanciullo aveva subito il martirio.
Era stato gettato in un pozzo, e una luce apparsa sul pozzo stesso condusse a scoprire e poi a estrarre di là la testa del martire, che venne portata dov'era il resto della salma. Fu subito un accorrere di gente in folla. Tutto il clero, seguito da una grande moltitudine, accompagnò in devota processione il corpo del bimbo, che venne portato provvisoriamente nella Basilica di Sant'Egidio e deposto in un luogo decoroso, in attesa di una sede più degna. Pochi giorni dopo, tutta Saragozza assistette a uno di quegli spettacoli, che fanno epoca nella storia di una città, anzi di un'intera nazione.
Sopra: alcuni pescatori ritrovano il corpo decapitato e senza mani del piccolo martire.
L'entusiasmo raggiunse l'inverosimile: le lacrime di gioia e di pietà di tutto il popolo della grande metropoli, a cui si unirono parecchie migliaia di persone, venute da luoghi vicini e lontani, attestarono ancora una volta la viva sensibilità umana e cristiana di quella nazione, così ricca di tradizioni gloriose. La grandiosa cerimonia era stata già preannunciata pubblicamente per tutte le vie e in tutte le case della città; e la voce era corsa subito anche fuori di Saragozza in altre città e paesi.
All'ora designata, il Vescovo, S. E. Mons. Arnaldo de Peralta († 1271), nella maestà degli abiti pontificali, con i Prelati, i Monsignori, gli alti dignitari ecclesiastici, con una lunga schiera di chierichetti, indossanti la piccola veste rossa e la cotta bianchissima, cari innocenti che venivano a onorare il loro compagno Domenichino, insieme con una enorme folla, si recò con grande solennità alla chiesa di Sant'Egidio per il trasporto del piccolo Santo.
Appena il corpo del benedetto fanciullo fu visto innalzato sulla moltitudine straripante in una gloria di luci, di serici drappi, di vessilli e di fiori, scoppiò un applauso fragoroso, vasto, interminabile. Mani supplichevoli si levarono verso il martire; inni, voci, preghiere salivano a Lui da ogni parte; era in tutti i cuori un tumulto di affetti, di ammirazione, di letizia tripudiante.
E poiché il martire innocente, supplicato da mille e mille voci, cominciò a fare miracoli strepitosi, allora egli fu salutato dalla moltitudine come un Angelo del cielo, disceso di nuovo tra i suoi concittadini per elargire loro grazie e benedizioni. Molte persone gravemente malate ebbero d'improvviso la guarigione corpi doloranti, tormentati da morbi inguaribili, membra disfatte da cancri ripugnanti riebbero d'un tratto la sanità, il colorito, la freschezza di prima.
Il corteo trionfale
La folla continuava a ingrossare. La chiesa di Sant'Egidio era piena, piena la piazza e gli sbocchi delle vie che ad essa conducevano. Non c'era più un centimetro di spazio vuoto, e tuttavia affluivano ancora da ogni parte nuovi fedeli, che erano costretti a fermarsi ai margini della moltitudine, contentandosi di levar lo sguardo su quella vasta distesa di teste.
Mai forse, neppur nelle grandi celebrazioni nazionali, fu vista tanta ressa di gente, quanta ne vide quel giorno attorno a sé Domenichino del Val, bimbo di dieci anni: la corona dei Martiri è più alta e luminosa delle corone, splendenti di gemme, che poggiano o, per dir meglio, che pesano sul capo dei sovrani della terra. I sacerdoti ebbero un gran da fare per ordinare in qualche maniera il corteo e ottenere una certa compostezza e devozione da quella fiumana ondeggiante; finalmente il corteo poté procedere lentamente e anche devotamente verso il luogo fissato. Non è senza una profonda commozione che si legge ancora adesso, dopo settecento anni, la narrazione di questo avvenimento, scritta dallo stesso Mons. de Peralta, Vescovo della Diocesi, che era presente al fatto. Egli scrive:
«A questo
spettacolo straordinario accorsero cittadini, soldati, personaggi
dell'alta nobiltà e uomini e donne di tutte le classi e le categorie
sociali; e recavano in mano dei ceri bianchi. Al corteo presero
parte anche eccellenti sonatori di strumenti di ogni genere che in
quella magnifica sinfonia di cuori diffondevano attorno dolcissime
melodie; e non mancarono concerti di trombe sonore, che eccitavano
gli animi con note ampie e robuste».
Sopra: l'anima del
Beato Domenichino entra nella gloria del Paradiso.
La lunga interminabile processione si
mosse dalla chiesa di Sant'Egidio, dov'era il corpo del Santo, e lo
accompagnò tra canti e suoni e preghiere, passando per tutte le
altre chiese, fino al tempio di San Salvatore, che era allora la
Cattedrale e che divenne più tardi la chiesa metropolitana. Il
grandioso avvenimento fu celebrato, allora e più tardi, da numerosi
scrittori, come uno dei più memorandi nella storia religiosa di
quella nazione.
L'urna gloriosa
La salma del martire venne dunque
deposta nella cattedrale di San Salvatore. L'urna che la racchiude
reca ancora scritte queste parole: «Hic infant iacet pro Christi
nomine martyr Beatus Dominicus de Val», che significano: «Qui
giace il Beato Domenico del Val, fanciullo martire per il Nome di
Cristo».
Col passare degli anni, per assecondare la devozione
sempre crescente dei fedeli, che da ogni parte si recavano in pio
pellegrinaggio al sepolcro del Santo, questo fu trasportato in varie
sedi più accessibili e degne, pur conservandolo sempre nella stessa
chiesa, dov'è tuttora, finché nel 1671, cioè più di quattro secoli
dopo il martirio, ebbe una sistemazione definitiva, in un'ampia
artistica cappella, da parte dei preposti della chiesa stessa, com'è
detto in un'iscrizione latina, posta nella medesima cappella, che
qui trascriviamo nella versione italiana per i nostri giovani
lettori:
«Questa santa
chiesa metropolitana volle qui deposta la salma del bimbo Domenico,
figlio di Sancio del Val e di Isabella sua sposa, cittadini ambedue
di questa illustre città. Sottoposto all'estremo supplizio qui a
Saragozza dietro ordine della Sinagoga degli ebrei fu confitto con
chiodi a una parete, e infine gli fu trapassato da un lato il petto
con una spada. Soffrì gloriosamente il martirio il giorno 31 agosto
1250».
Lapide posta ai piedi
dell'altare dedicato al Santo nella chiesa di San Filippo Neri, a
Siviglia, in cui è scritto in lingua spagnola: «San Domenico del
Val fu martirizzato dagli ebrei nell’anno 1250 in Saragozza, la sua
patria, all’età di sette anni. Le sue reliquie ritrovate
miracolosamente si venerano nel tempio del Salvatore di detta città,
dove il suo culto si è esteso, per volontà di S. S. Papa Pio VII, il
9 luglio 1808. Questo altare, eretto per volontà dei suoi parenti
nell’anno 1815, traslato in questa chiesa da un membro della sua
famiglia nel dicembre del 1863, è di proprietà dell’Ecc.mo Rafael
Merry del Val, parente del Santo».
La cappella è tutta un sorriso di arte
e di pietà. In alto, al di sopra dell'altare, nella parete
retrostante, c'è una larga nicchia, chiusa da un artistico cancello
di ferro battuto, col lembo marginale che par tutto un ricamo d'oro.
Dietro il cancello si vede la piccola tomba di alabastro. Nel mezzo
della tomba, sulla parte anteriore, si leva un angelo, che tiene tra
le mani, scolpita in un nastro di metallo dorato, la breve scritta
che abbiamo già riportata: «Hic infans...».
Al di sopra della
nicchia, in alto, vi è un baldacchino di prezioso tessuto di
Damasco, nel cui mezzo spicca a vivi colori l'effigie del
chierichetto Domenichino, che indossa la sua vestina rossa e la
cotta bianca, confitto a una parete, col lato destro del petto
aperto da una lancia e con attorno al capo un candido nimbo
d'argento.
Sopra: cappella di San
Domenichino
nella Cattedrale di
San Salvatore, a Saragozza.
La vendetta dell'amore
La nostra storia non dice se gli
uccisori del santo chierichetto siano stati scoperti e puniti,
perché tanta parte dei documenti di quei tempi lontani andò dispersa
o smarrita. Ma un episodio commovente è giunto fino a noi; un
episodio, che è tutto un profumo di bellezza e di bontà, e che
vogliamo qui riferire come un'amorosa vendetta che fece Domenichino
sul più feroce dei suoi carnefici. Qualche anno dopo i fatti che
abbiamo narrati, fu visto una sera uno sconosciuto, avvolto e come
chiuso in un nero mantello, prostrato sul pavimento dinanzi alla
tomba del piccolo Santo.
Stava immobile; pareva assorto in
preghiera; ma ogni tanto il petto dava un sussulto, e le sue labbra
mandavano qualche gemito, che finiva in un singhiozzo. Chi era mai
quello sconosciuto? Era Albaiuceto, lo spietato giudeo che aveva
rapito il fanciullo, che aveva fatto strazio di quel tenero
corpicino e gli aveva poi cacciato nel cuore la lama di un coltello.
Albaiuceto da quella sera terribile non aveva più avuto pace.
Rivedeva spesso nella fantasia agitata il bimbo, candido e mite, che
si divincolava sotto le braccia robuste dei suoi carnefici; sentiva
ancora quella vocina fievole domandare aiuto, invocare la mamma,
implorare pietà; e quella voce supplichevole gli penetrava nel cuore
come un pugnale.
Sopra: Eugenio Zolli
(1881-1956), ex rabbino capo di Roma che nel 1945, dopo
un'apparizione di Gesù, si convertì al cattolicesimo insieme alla
sua famiglia.
E allora fuggiva di casa, correva lontano lontano,
fuori dall'abitato, attraverso i campi, per distrarre la mente da
quel ricordo lacerante. Ma quando poi scendevano le ombre della
notte, la tetra visione gli riappariva alla mente, e restava lì,
fissa, immota, implacabile, come una sfida, come una minaccia. In
quella cupa disperazione più volte gli era balenata alla mente
l'idea di gettarsi nelle acque dell'Ebro e porre fine ad una vita
divenuta ormai insopportabile; ma nell'alto dei cieli c'era un
Angelo che pregava per lui: Domenichino era morto crocifisso come
Gesù, e come Gesù anche lui pregò per i suoi crocifissori.
La più
grande conquista dell'amore, fatta dal piccolo martire innocente, fu
il suo carnefice. Albaiuceto sentì che solo il bimbo, che egli aveva
fatto tanto soffrire, poteva dare un po' di pace al suo cuore
ulcerato. E corse in chiesa, e si buttò in ginocchio dinanzi alla
sua tomba, e pregò e implorò e pianse tutte le sue lacrime. Poi si
levò dal suolo, baciò avidamente la piccola urna, e uscì di chiesa.
Sentì che Dio aveva esaudito quelle preghiere e quelle lacrime; e
nel cuore, fatto ormai libero e sereno, gli risonava l'eco soave e
consolatrice delle parole di Gesù: «Si fa più festa in cielo per
un peccatore convertito che per novantanove giusti, i quali non
hanno bisogno di penitenza» (Lc 15, 7). Albaiuceto chiese
umilmente di entrare nella Santa Chiesa; ricevette il battesimo, e
visse e morì santamente. Domenichino aveva vinto: a chi gli aveva
tolto la vita terrena ottenne la vita celeste.
La fama vola
Ma sentite che cosa avvenne dopo il
martirio di San Domenichino. La fama del piccolo martire si diffuse
in un baleno in tutta la Spagna e in Europa, e perfino in America. E
sì che a quei tempi non c'era il telegrafo e non c'erano le navi a
vapore, e per passare l'oceano ci volevano dei mesi. E come fecero
allora quelli della lontana America a sapere che nella Spagna era
stato crocifisso un bambino di dieci anni? Mah! Fatto sta che un bel
giorno al principio del '700 un sacerdote, che si chiamava
Girolamo Lopez, partì dalla Spagna per recarsi nel Messico,
essendo stato nominato Rettore dei Canonici della Cattedrale di
Messico. Appena arrivato in quella città, mandò subito una lettera a
un canonico di Saragozza, Giuseppe Valasquez, nella quale
diceva così:
«Reverendissimo
Sig. Valasquez, Vi prego di mandarmi subito la Vita di San
Domenichino del Val, quel chierichetto che fu ucciso dagli ebrei;
perché qui, nel coro della Cattedrale di Messico, ho trovato una
bella immagine di San Domenichino, scolpita nella parete in alto
rilievo. I bimbi addetti a questa chiesa sono soliti adornare questa
immagine con fiori e con rami d’alloro; e nella vigilia della festa
di San Domenichino e nel giorno stesso della festa, il 31 agosto, vi
accendono anche delle lampade...».
Sopra: statua lignea
del piccolo martire di Cristo.
Avete visto? San Domenichino è già da
più di due secoli venerato nella prima chiesa della capitale del
Messico.
E anche in Asia
Sicuro, anche in Asia, e proprio nella
Terra Santa. Un nostro sacerdote italiano, cinquant'anni fa,
trovandosi a Gerusalemme, entrò nella chiesa dei preti di San
Pietro, e vide sopra un altarino, tutto splendente di luci e di
fiori, l'immagine di San Domenichino del Val. Il sacerdote, davanti
a quel volto soave e triste, a quel piccolo petto squarciato come
quello di Gesù, si sentì commosso. E come poteva non commuoversi?
Vedere con i suoi occhi il Santino di Saragozza proprio lì, vicino
al luogo dove era stato messo in croce il Signore, e a pochi
chilometri da Betlemme, dove erano stati sgozzati i piccoli Santi
Innocenti! E nella stessa città di Gerusalemme la Provvidenza in
questi ultimi tempi ha voluto associare il nome di San Domenichino a
una di quelle istituzioni gentili, che destano la simpatia
universale: una comunità di suore, dette le Dame di Lione, si
stabilì non molto tempo fa nel Pretorio di Pilato, e lì fondò una
specie di collegio dove vengono raccolti ed educati dei piccoli
orfani; e le buone suore istituirono anche la Confraternita di San
Domenichino del Val, i cui soci si raccolgono ogni mese per
assistere a una funzione religiosa in onore di San Domenichino allo
scopo di ottenere, mediante la sua intercessione, la conversione dei
fanciulli ebrei.
In quel giorno, davanti alla sua immagine è tutta una profusione di
fiori e di luci, e vi si alternano canti e preghiere. Non è
commovente il vedere che proprio nel Pretorio di Pilato, dove gli
antichi ebrei gridarono il crucifige a Gesù, proprio lì, nella
stessa casa, dei fanciullini orfani preghino ora un piccolo martire,
ucciso anche lui dagli ebrei, per ottenere col suo patrocinio il
dono e le gioie della fede a quei bimbi che ancora non l'hanno?
Rosso di porpora e rosso di sangue
Tra i parenti di San Domenichino ci fu anche un Cardinale di Santa
Romana Chiesa: il Cardinale Rafael Merry del Val (1865-1930), nato
dalla stessa nobilissima famiglia spagnola, a cui apparteneva
Domenichino. Il Cardinale Merry del Val fu Segretario di Stato del
Sommo Pontefice San Pio X (1835-1914). Abbiamo potuto avere tra le
mani una bella lettera di questo Cardinale, che trascriviamo qui,
tradotta in italiano, per i nostri piccoli lettori.
Sopra: il Cardinale Rafael Merry del Val,
parente del piccolo martire, nonché strenuo nemico di
quell'eresia modernista che uscita vincitrice al Concilio
Vaticano II fece scomparire in nome dell'ecumenismo il culto
dei bambini martirizzati dagli ebrei.
Prima però bisogna che diciamo in quale occasione essa fu scritta.
Circa sessant'anni fa a Saragozza, i Cavalieri della Società di San
Vincenzo de' Paoli fondarono un patronato per fanciulli orfani, e lo
vollero chiamare Patronato di San Domenichino del Val. Quando tutto
fu pronto, prima di iniziare la loro nobile attività, chiesero la
benedizione del Santo Padre, che allora era Leone XIII (1810-1903).
E il Papa mandò un'affettuosa benedizione, come appare dalla lettera
che qui riferiamo.
«Illustrissimi e spettabilissimi Signori, ho ricevuto con molto
piacere la lettera, da loro inviatami cortesemente il giorno 4 corr.
per farmi sapere che la Società di San Vincenzo de’ Paoli di
Saragozza ha fondato un asilo per bambini orfani sotto la protezione
del mio Santo Parente, il glorioso Martire saragozzano San
Domenichino del Val. Io ho appreso non solo con gradimento, ma con
orgoglio la loro deliberazione di eleggere per Patrono di codesta
istituzione il martire, il cui sangue scorre nelle mie vene. Lo
scopo della nuova istituzione non può essere più simpatico, e io
applaudo con tutto il cuore al fine caritativo che si sono proposti.
Sua Em. il signor Cardinale Vannutelli, protettore della Società San
Vincenzo de’ Paoli, ha spedito a loro una lettera autografa,
inviando una benedizione speciale, che il Santo Padre Leone XIII ha
concesso alla loro opera per i fratelli, soci di codesta conferenza,
per le figlie della Carità e per tutti quelli che prestano la loro
cooperazione. Con auspici tanto angusti, con le indulgenze
straordinarie concesse alle conferenze, e che sono applicabili al
nuovo istituto, e con la protezione elle certamente concederà il
Santo martire, da loro scelto per protettore dell’istituto stesso,
sono persuaso che esso prospererà e col tempo raggiungerà il suo
scopo pietoso. Per esso faccio i voti più sinceri, mentre ho il
grandissimo conforto di dichiararmi di loro e del Consiglio
Direttivo cordialissimo e devotissimo servo. Raffaele Merry del Val».
Sopra: S. S. Papa
Leone XIII.
Solo la Chiesa di Cristo offre di questi spettacoli di umiltà e di
grandezza: un porporato di Santa Romana Chiesa, che sente la gloria
di aver nelle vene il sangue di un chierichetto di dieci anni!
Ed ora, a voi chierichetti!
Ora tocca proprio a voi. «Tocca far
che cosa»? Ecco: ve lo dico subito. Quel sacerdote italiano, di
cui vi parlavo prima, che alcuni anni fa si recò in pellegrinaggio
nella Terra Santa e che vide, con suo grande stupore, in una chiesa
di Gerusalemme l'immagine di San Domenichino del Val, tornato che fu
in Italia, scrisse un bel libro, nel quale espresse questo voto:
«Come vedrei
volentieri il chierichetto della Cattedrale di Saragozza, tenuto in
venerazione dai chierici tutti nelle cappelline dei nostri seminari,
e l'immagine di Lui splendervi, dall'altare, in mezzo ai fiori e ai
lumi»!
Ma io dico a voi, chierichetti cari:
San Domenichino non era propriamente un chierico, né un seminarista,
ma un chierichetto, come siete voi. E perciò, io vedrei volentieri
che egli fosse tenuto in venerazione come loro Patrono da tutti i
chierichetti d’Italia e del mondo. E perché allora non cominciare
subito, noi, della nostra Diocesi? Potete star sicuri che le altre
Diocesi ci verranno dietro. Naturalmente, la proclamazione
ufficiale, da parte della Chiesa, di San Domenichino a Patrono dei
chierichetti verrà poi, perché la Chiesa fa sempre i suoi passi con
molta ponderazione.
Ma verrà certamente anche quel giorno, state
sicuri; e la Chiesa estenderà il culto di San Domenichino anche
all'Italia, come c'è già da tanti secoli nella Diocesi di Saragozza
e in tutta la Spagna. Anzi in quella città, dove egli nacque, dove
esercitò piamente l'ufficio di chierichetto, e dove incontrò il
martirio, è festeggiato da quasi cento e cinquant'anni con un culto
solenne, approvato, si intende, dalla Chiesa di Roma.
La parola dei chierichetti a San
Domenichino
Perché tu sei nostro, o Domenichino; nostro
amico e nostro fratello. Sei nato, è vero, in terra di Spagna, la
terra di Domenico, di Giovanni della Croce, di Teresa, di Ignazio,
ma i Santi non sono cittadini di una sola città o di una sola
nazione; essi appartengono a tutta la terra, perché sono figli della
Chiesa cattolica, Madre dei Santi, che spiega le sue tende dall’uno
all’altro mare. E più ancora sei nostro amico e fratello, perché
anche tu, come noi, hai indossato la piccola veste e la candida
cotta; e come noi, hai servito all'altare, tra lo splendore dei
sacri riti, sotto lo sguardo degli Angeli del cielo.
Noi vogliamo
farti qui, o Domenichino, una preghiera e una promessa: la preghiera
che tu sia sempre con noi, sempre in mezzo a noi, come Angelo
tutelare, a guidarci per le vie fiorite della grazia, della purezza
e dell’amore; e la promessa di servire con un vita incontaminata il
Padre nostro celeste e la Vergine, nostra Mamma, affinché la veste
dell'innocenza ci faccia degni di quella gloria, alla quale tu sei
salito con la veste imporporata del tuo sangue.
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Note
1 Il testo qui riportato risale all’edizione del 1959, ma nella sua presentazione l'Autore parla della ristampa di un edizione precedente di qualche anno (N.d.R.).
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