Sopra: Mahakala («Il Grande Nero»), il demone che protegge il Tibet.
Ci sono vari e grossi fraintendimenti a cui si va incontro quando si parla di buddismo oggi. Il primo è quello che riguarda il Dalai Lama e il Buddismo tibetano. Oggi, grazie alla pressione congiunta di Hollywood e dei media (ma aggiungeremmo volentieri la moda, l'Accademia dei Nobel, la CIA) si tende a pensare che il tibetano sia il principale - finanche il più puro - rimasto incorroso nei secoli buddismo esistente al mondo.
Al contrario, il buddismo del Dalai Lama è stato considerato sospetto dagli studiosi per decenni, perché contaminato di oscuri elementi sciamanici e animisti della religione che lo precedette sulle alture del Tibet, il Bon. Fu il formidabile orientalista italiano Giuseppe Tucci (1894-1984), considerato il più grande tibetologo del Novecento, a togliere l'embargo accademico che verteva su questo versante della religione dell'illuminato.
Sopra: l'orientalista Giuseppe Tucci.
Negli anni Settanta, quando grazie alla psichedelia e ai suoi mille rivoli orientaloidi i tibetani poterono cominciare ad entrare più massivamente nel discorso della cultura popolare occidentale, non era nemmeno la corrente del Dalai Lama (i Gelugpa) ad andare per la maggiore, in quanto i concorrenti della sétta Kagyu (con cui i Gelugpa conducono una guerra senza esclusione di colpi, con morti e tremende trame sovversive) parevano, per mezzo del carisma del controverso monaco sessuomane Chögyam Trungpa (1939-1987), essere arrivati prima nella corsa all'oro della controcultura, identificandosi con le istanze di ricerca del profondo e di trasgressione che pulsavano nel cosiddetto underground americano.
Sopra: il monaco buddista Chögyam Trungpa.
Con gli anni Ottanta e Novanta la situazione era totalmente rovesciata, e il Dalai Lama veniva così legittimato - oltre che come sfortunato capo di uno Stato teocratico in esilio - anche come pontefice massimo di tutto il mondo buddista. Questo per effetto di campagne mediatiche mirate che hanno coinvolto tutti i mezzi possibili, dai libri ai film, dai giornali alla televisione, senza dimenticare i mega-raduni che puntualmente si realizzarono in ogni città d'Occidente: alla percezione di chi vive alle due sponde dell'Atlantico, e non solo, il principale buddismo al mondo è quello tibetano.
Sopra: il Dalai Lama.
Considerata la varietà globale del culto (il theravada, lo zen, lo shingon, le mille ramificazioni in Corea, Vietnam, Tailandia, Mongolia; la lista è vasta quanto l'Asia e anche di più) non c'è niente di più falso. Ma vi è anche un altro grande fraintendimento, questa volta più occulto, anzi più «occultato», perché gli attori in gioco fanno di tutto per tenerlo segreto. Il mondo, ormai sedotto dal Tibet, non deve sapere cosa giace nel cuore della sétta del Dalai Lama, anche se tutto questo lato scandaloso emerge quando chiunque prende in mano uno dei testi principali della tradizione del Tibet, il Kalachakra tantra.
Le letture dei tantra promuovono lo stupro, la pedofilia, l'omicidio rituale, il suicidio rituale, un nazionalismo messianico di matrice apocalittica, e un contorno agghiacciante di pratiche in tutto per tutto identiche a quello che in Europa chiamiamo magia nera, con tutti i suoi crismi: riti sessuali, rapporti pedofili, ingestione di sostanze impure come il mestruo e gli escrementi, vergini deflorate sugli altari, cannibalismo, omicidio rituale, commercio coi demoni.
Il commento più importante al testo del Kalachkra lo ha scritto il veneratissimo «santo» buddista Naropa (956-1041) in un testo denominato con l'interminabile parola sanscrita Paramarthasamgrahanamasekoddesatika, ossia «Commento al riassunto dell'iniziazione». Pur trattandosi di un testo di capitale importanza, non vi sono molte traduzioni in circolazione. In italiano è stata pubblicata - chi altri? - dall'inevitabile Adelphi. Il curatore del libro, lo studioso Raniero Gnoli, nella sua introduzione, fa cenno a certe pratiche inconvenienti del tantrismo:
Sopra: il « mistico» buddista Naropa.
Gli avvertimenti continuano. Leggiamo nell'Hevajra tantra:
In pratica si tratta di istruzioni per un sabba, di comandi non dissimili a quelli contenuti nei grimori, i libri della magia nera medievale europea 3.
Sopra: teschio umano utilizzato per rituali.
È inutile difendersi dal pensiero dicendo che si potrebbe trattare di un frangente marginale all'interno della tradizione tibetana: in varie cadenze, e in vari luoghi del pianeta, il Dalai Lama imbastisce titaniche iniziazioni al Kalachakra (in Occidente è stato a New York, a Sydney, a Los Angeles, a Barcellona e a Graz) con migliaia di adepti o peggio, di semplici simpatizzanti, che ricevono questa «benedizione» senza nemmeno immaginare cosa vi si nasconda dietro.
Il valore sostanziale, magico, di questo rituale di massa è reso noto dallo stesso Dalai Lama: «Lo scopo dell'iniziazione è impiantare speciali semi karmici nella mente del discepolo» 5. Appunto del seme (cioè dello sperma), del suo mistico uso, della sua fantastica ascesa verso la mente ci parla costantemente il tantra: «Non esiste peccato maggiore della mancanza di concupiscenza», dice il Budda al Re Sucandra nel Kalachakra tantra, «non esiste merito maggiore del piacere, sicché, o Re, devi applicare di continuo la mente al piacere immoto» 6.
Sopra: il Dalai Lama insieme ai giovani a Princeton nel 2014.
Dove per «piacere immoto» si intende la tecnica di ritenzione del seme alla basa dei tantra. «Messo il linga nella vulva - dice Naropa nel suo commento al rituale del Kalachakra - occorre non emettere il seme e visualizzare l'immagine del Buddha, estendentesi a tutti e tre i mondi, completamente» 7. Il linga è per la tradizione indiana il fallo, o la sua rappresentazione scultorea diffusa nei templi shivaiti. È pregnante l'uso di una tale terminologia per descrivere l'amplesso, che è il fulcro del rituale tantrico. Ma anche in mancanza di possibilità di rapporto sessuale vengono date precisi comandi, con analoghe metafore mistiche:
Sopra: scultura marmorea del linga in Cambogia. Siamo in pieno culto fallico.
L'ossessione antifecondativa - in tutto e per tutto una sorta di stregoneria onanista - arriva persino ad immaginare amplessi non plausibili, ma comunque terrificanti, come quando Naropa racconta di come «nell'unione, in sogno, con la figlia di una donna sterile - figlia quindi mai nata - può provarsi piacere» 9. Più che il lato oscuro del buddismo, si dovrebbe parlare di un problema di ordine pubblico.
E questo per le autorità civili (che qualche volta mettono in galera i monaci assatanati, come in California) come per la Chiesa, che ad oggi non ha sortito la minima condanna per la crescente influenza planetaria di questo buddismo demoniaco. Il malinteso parte dalla natura del buddismo tibetano stesso. Esso si presenta al mondo borghese come una punta della tradizione mahayana, ossia del grande veicolo: è quella grande famiglia del buddismo che, oltre che sulla shunyata (il vuoto come fondamento di tutte le cose) pone l'accento sulla karuna (pietà per tutti gli esseri senzienti) e ha inventato l'esistenza di Bodhisattva e affini, creature mitologiche dispensatrici di illuminazione (quando non della loro rabbia punitiva).
- Sopra: una rappresentazione di Bodhisattva.
l buddismo tibetano invece si iscrive pienamente fra le scuole di buddismo vajrayana (dal sanscrito, «veicolo del diamante», «veicolo del fulmine», «veicolo adamantino») o tantrayana, ossia veicolo dei tantra. I tantra sono testi magici composti sotto l'influenza delle correnti più perverse dell'induismo shivaita, ovvero quello di chi adora Shiva, dio della distruzione, della danza e del crimine. Secondo una leggenda, i tantra buddisti furono scritti dallo stesso Siddharta Gautama (566-486 a.C.), che volle però tenerli nascosti per la loro potenza e pericolosità.
Sopra: il dio Shiva.
L'illuminazione per il vajrayana non è infatti qualcosa per cui impiegare una o più vite; la si può ottenere con l'uso di specifici rituali magici. Non è esagerato affermare che per il vajrayana tutto si basa sulla sessualità. La parola stessa vajra - «fulmine» - attiene ad una virilità sacralizzata. Il vajra, il fallo (lingam), trova la sua controparte femminile nel fior di loto (padma) o nella campana (gantha), che rappresentano la vagina (yoni). Nel Kalachackra tantra non si compie nient'altro che la sacra unione tra il maschio dio Kalachakra (Il signore del Tempo) e la dea Vishvamata (Regina della Notte).
Sopra: yoni e linga, evidente espressione degli organi genitali.
Il fine ideale di questi rituali è quello di ottenere lo stato di Adi-Buddha, ossia di Budda primigenio, principio androgino creatore di tutte le cose, stato a cui il praticante può legittimamente aspirare. Lo yogin diventa così mahasidda, «uomo dotato di grandi poteri», che sono fisici e metafisici - sia le creature mondane (uomini, bestie) che quelle trascendenti (demoni, spiriti) devono infatti obbedire a colui che è diventato pari (come assicurava il Serpente del giardino, «eritis sicut dei») al creatore dell'Universo.
Sopra: stato androgino di Adi-Buddha.
Gli incantesimi nei tantra sono di natura sessuale. Ve ne sono di tutti i tipi: per ottenere una donna da usare per i riti, per schiavizzarla contro la sua volontà (per altro neanche tanto difficile: nello stato di meditazione profonda si immagina la donna desiderata trafitta da un fiore-freccia), per assumere le sembianze del marito così da poter godere delle prestazioni della moglie senza che nessuno sospetti niente, per moltiplicarsi e poter così dar piacere, su esempio del dio indù Krishna, a centinaia di vergini al contempo. Le donne che cooperano a questa mostruosa teologia della lussuria sono chiamate karmamudra, ovvero «sigillo dell'azione» - né più né meno inermi tappi per le mistiche operazioni del monaco.
Sopra: yogin indiano.
Trattandosi di strumenti di saggezza, le femmine sono anch'esse sottoposte ad una tassonomia religiosa che ne valuta l'utilità secondo la loro natura. Ci si può servire delle kumari (otto anni) anni), delle salika (dodici anni), delle siddha che hanno sedici anni e sono mestruate, delle balika (vent'anni) e delle bhadrakapalíni (venticinque anni). Lama Gedun Chöpel, morto nel 1951, metteva in conto che era possibile procurare danni ai genitali delle mudra troppo giovani, per questo consigliava, specie sotto i dodici anni, di nutrire la bambina con dolci e miele prima del rapporto.
Sopra: il lama Gedun Chöpel.
Lo studioso di tantra Benjamin Walker descrive il rito della kumari-puja («adorazione della vergine») con una ragazzina scelta e addestrata dal guru per essere denudata sull'altare, pregata ed infine deflorata dal guru o da un suo sottoposto 10. Su base numerologica, sono comunque da preferirsi quelle di dodici o sedici anni. Tsongkapa (1357-1419), grande iniziatore della sètta che fa capo al Dalai Lama (Gelugpa), raccomanda l'uso delle ventenni solo quando per il bisogno non si trova altro.
Sopra: il lama Tsongkapa.
La tassonomia diventa sottilissima nel caso dei consigli di Naropa, che nella sua introduzione al Kalachakra tantra racconta come le undicenni rappresentino l'elemento dell'aria, le dodicenni l'elemento del fuoco, le tredicenni l'acqua, le quattordicenni la terra, le quindicenni il suono, le sedicenni il tatto, le diciassettenni il gusto, le diciottenni il concetto della forma, le ventenni il senso dell'olfatto 11. Come dargli torto quando indica i pericoli connessi all'uso di venti-trentenni, da lui chiamate «dee dell'ira».
Dai trentuno ai trentotto anni le femmine da accoppiamento rituale sono descritte come dirette emanazioni di spiriti maligni, dai trentanove ai quaranta sono «immani manifestazioni dei demoni» 12. A livello pratico, le femmine sono procurate ai monaci dagli assistenti, e non mancano nel Kalachakra tantra i consigli pratici per ottenerne la «collaborazione» anche senza il loro consenso: una volta provati tutti i malefizi yogici possibili, le si ubriaca punto e basta.
A rivelare al mondo la tremenda realtà di questo culto fu June Campbell, una ragazza che lavorò per molti anni come traduttrice e assistente personale di un guru della sètta Kagyu, il «venerabile» Kalu Rinpoche (1905-1989). Questi, ad una veneranda età in cui andava per gli ottanta, sconvolse la ragazza chiedendole di diventare la sua mudra. La Campbell - convinta anche dalle minacce del Kalu, che le raccontò di come la sua predecessora si era rifiutata, e di conseguenza da lui tele-assassinata con un letale mantra - accettò, ma poi dopo molte peripezie riuscì a sfuggire alla cerchia tantrica e raccontare all'Occidente la realtà dietro al monachesimo tibetano.
La Campbell trovò la forza di fuggire quando realizzò l'inquietante consistenza delle minacce: mentre Kalu Rinpoche «praticava» con lei al fine di ottenere l'illuminazione (che è esclusivamente per lui, perché la donna è solo uno strumento), faceva lo stesso anche con un'altra giovincella di neppure vent'anni. Quest'ultima morì di colpo e piuttosto misteriosamente, quindi si scatenò il timore della Campbell che fuggì per sempre dal suo «maestro» e dalle trame tantriche 13. Per identici motivi («abuso della posizione e di interprete del Buddismo tibetano per ottenere favori sessuali da studentesse nel corso di molti anni») nel 1992 la Corte Suprema di Santa Cruz (California) portò alla sbarra Sogyal Rinpoche, affermato commentatore de Il libro tibetano dei morti.
Sopra: il lama tibetano Sogyal Rinpoche e Il libro tibetano dei morti.
Scatta qui una domanda: essendo che il Kalachakra tantra prescrive l'uso disinvolto di ragazzine di casta bassa (dette dombi: figlie di giardinieri, di macellai, di prostitute) ci chiediamo se dietro questa passione dei guru per le giovani occidentali vi sia non l'attrazione per capelli-occhi-pelle chiara e corpi slanciati (di per sé un desiderio non sconosciuto a tanti asiatici), quanto piuttosto la bassa considerazione che i guru hanno per la nostra società tutta - un mondo da spennare economicamente, da occupare culturalmente e fisicamente, un mondo cui razziare anche e soprattutto le femmine.
Alla fine anche gli spiriti venuti da Oriente hanno lo stesso programma dei loro fratelli barbari giunti a Roma al decadere dell'Impero... Tornando alle pratiche in cui incorre la femmina nelle mani dei tantristi, c'è anche la mutilazione femminile. Essendo il corpo della donna, specie se nudo, un elemento di provocazione che lega l'uomo al mondo (per questo già nel buddismo mahayana è considerato come una immagine di meditazione), la visione di un corpo femminile amputato - conosciuta anche nel tantrismo indiano - rappresenta letteralmente la vittoria sul mondano e la via perfetta verso l'illuminazione.
La donna dismembrata ricorda anche la vittoria di Budda sulla dea tentatrice Mara 14. Il rito di Chinnamunda, detto anche Chinnamastra, è il sacrificio femminile tantrico che prevede invece la decapitazione della sventurata consorte rituale. Altrettanto interessanti sono i drink che le consorti devono offrire al praticante; il Candamaharosana tantra mette in lista: gli escrementi, l'urina, la saliva, i residui interdentali, l'acqua del lavaggio dei piatti, il vomito e l'acqua di lavaggio dell'ano. Il Guhyasamaja tantra promette che chi fa dell'urina e delle feci il proprio cibo raggiungerà la felicità. Nell'Hevajra tantra si chiede invece al monaco di bere il sangue mestruale della consorte da un teschio, ma all'uopo può servirsi anche di acqua delle fognature, feci canine, grasso di cadavere, escrementi di cadavere e via dicendo 15.
Sopra: il Candamaharosana tantra.
Il lettore riconoscerà qui che si è di fronte in tutto e per tutto ad una «legge dell'inversione» che sovverte il senso del reale tutto. Il tantrismo buddista tibetano in questo non è diverso da tante aberrazioni religiose comparse nel corso della Storia, le più note a noi sono lo gnosticismo (e i suoi mille rivoli magico-satanici, antichi come moderni 16) o le sette messianiste ebraiche di Sabbatai Zevi (1616-1676) o Jacob Frank (1726-1791): essendo il mondo fatto di peccato, essendo il reale una creazione di un demone (il Dio vero, buono e giusto, non è il demiurgo, è invece lontano e disinteressato) per compiacere al vero Dio bisogna comportarsi in modo inverso rispetto alle leggi stabilite: ciò che è impuro diventa puro, ciò che è maledetto diventa sacro... ciò che è diavolo diventa Dio.
Il pioniere della moderna tibetologia Giuseppe Tucci ammise che, di fronte alla traduzione di testi che parlavano di simili orrori, semplicemente omise i passaggi più scabrosi - c'è da capire, egli era finanziato nei suoi studi da sedicenti strutture nazionali cristiane (l'Italia fascista e pure quella democristiana) e mostrare che nei testi sacri sono esposti simili orrori - l'assoluta identità con la magia nera occidentale è auto-evidente - non gli avrebbe forse garantito i fondi per i suoi studi, i viaggi, i suoi scavi.
Evitati in modo criminale dalla tibetologia ufficiale, dobbiamo così attendere anni più recenti per raccogliere qua e là informazioni sulle caratteristiche del vajrayana, come fa l'inarrivabile saggio dei coniugi Victor e Victoria Trimondi, cui dobbiamo molto di quello che scriviamo in questo capitolo. Octavio Paz (1914-1998), scrittore messicano e Premio Nobel 17, un suo saggio sui tantra - mondo che lo affascina poiché come nel dìa de los muertos messicano anche il Tibet è cosparso di scheletri ed estetiche necrofile - racconta anche di un'altra necessaria frontiera della legge dell'inversione, e cioè la copula indiscriminata con persone con le quali si hanno relazioni di sangue: l'incesto.
Sopra: lo scrittore messicano Octavio Paz.
V'è spazio anche per la maha mamsa, la «grande carne». Considerando che nelle Indie vi sono una grande quantità di tabù sulla carne animale e soprattutto su quella di particolari animali (elefante, mucca, cane, cavallo) è facile immaginare quale sia quella sulla quale è posto - nella quasi totalità delle culture umane - il divieto più grande: la carne umana. Il saggio Pundarika, nel suo commento al Kalachakra, suggerisce di consumare «carne proveniente da cadaveri di uomini morti per il proprio cattivo karma, uccisi in battaglia».
In recenti commenti al Kalachakra si consigliano anche piccole quantità di mammelle umane, ma vi sono poi ricette che prevedono per determinate cerimonie il consumo di cervella, fegato, polmoni, intestino, testicoli: una vero e proprio banchetto mistico che potremmo etichettare come cannibalismo buddista. Si pensa di essere arrivati al massimo tragico grado di perversione della catena alimentare, ma vi è fra i tibetani un menu ancor più curioso. I turisti che fuori da molti templi si intrattengono nell'immancabile annessa «farmacia» ignorano (o fingono di ignorare, si spera) che le pillole miracolose che vi comprano a suon di quattrini altro non sono che concentrati delle feci dei lama del monastero.
Sopra: uno guru induista beve (cosa???) da un teschio.
Le feci più pregiate e costose sono ovviamente quelle del supremo gerarca, il Dalai Lama, che aveva con sé una squadra addetta all'incapsulamento dei propri escrementi perfino nel 1954, durante la sua mitica visita a Mao Zedong (1893-1976) a Pechino. Il quale, secondo una voce popolare, fu condotto alla morte dopo ripetuti tentativi da una tecnica - all'elenco delle mostruose perversioni di questa religione non poteva mancare - di omicidio rituale, ben descritta nell'Hevajra tantra così come dal Guhyasamaja tantra; anche se i testi parlano del potere di sterminare tutti gli esseri senzienti per mezzo del fulmine segreto, senza troppa fantasia, il rito è molto simile a quelli del vudù, anche se non manca il carattere spettacolare: lo yogi deve
Sopra: Guhyasamaja tantra.
Aberrazione per aberrazione, si arriva dunque nei pressi del suicidio rituale e del sacrificio umano. Il primo prevede l'auto-assassinio per generosità cosmica di un ragazzo che si vuole «speciale»: ha buoni occhi, modi gentili, un naso fine, una voce sincera. Egli si è reincarnato ben sette volte e per questo ha queste ottime caratteristiche. I tantristi, una volta individuato il giovane, devono portargli fiori e implorarlo di suicidarsi nell'interesse di tutti gli esseri viventi.
Dalla sua carne saranno ottenute altre pilloline, la cui ingestione garantisce l'acquisizione, tra l'altro, del siddhi (potere magico) di camminare nel cielo. Una grande importanza riveste anche il sangue del cuore dello sventurato, così come il suo teschio. Si entra così nell'ambito dei sacrifici umani. Se ne parla nei cosiddetti Annali Blu, un documento datato XIV secolo che riveste un'importanza capitale per la storia del buddismo tibetano.
Sopra: uno yogi beve da un cranio umano.
Ne scrive in tempi più recenti anche Sir Charles Bell (1870-1945), ufficiale dell'Impero Britannico nel Sikkim e tibetologo della prima ora. Al confine col Bhutan, si trovò in un tempio davanti ai resti del sacrificio di un bambino e una bambina di otto anni. Altri antropologi occidentali, come Robert Ekvall (1898-1983), hanno attestato il perdurare di sacrifici umani in Himalaya anche nel dopoguerra. A cavalcare tutte queste macabre storie sono certamente le autorità cinesi di oggi, che agli orrori dei diabolici lama assassini anno dedicato un ricco museo chiamato Tibetan Revolution Museum.
Sopra: il tibetologo
Sir Charles Bell.
Al di là della faziosità
da mettere automaticamente in conto alla parte cinese, il catalogo è
impressionante: teschi, mani mummificate, rosari fatti di ossa
umane, trombe ricavate da tibie di ragazze sedicenni, nonché
documenti con il sigillo del Dalai Lama che domandano il
contributo di teste umane, sangue, carne, grasso, intestino, mani
destre, pelle di bambino, il sangue mestruale di una vedova; il
tutto chiaramente per il mantenimento del sacro ordine che imperava
da Lhasa.
Tutto questo traffico di cadaveri e di delitti ha il solo
fine di celebrare riti che garantiscano il sodalizio con le entità
che abitano il Tibet, li si può chiamare «divinità» ma anche il
termine «demone» sembra appropriato: così almeno si sono espressi i
centinaia di studiosi che hanno scorto in tutta questa cultura
l'onnipresenza dei terrifici herukas e delle altre personali
manifestazioni del male che vagano per il paese e per i diciotto
inferni del vaijrayana (il più terribile è quello dedicato
specificatamente ai nemici del culto, quello cioè in cui
probabilmente finirà chi scrive).
Sopra: un herukas, un demone orribile.
I demoni, che secondo il folklore
abitavano l'altopiano prima che si facesse un lavoro di pulizia
esorcistica massiva, non sono del resto mai stati scacciati
veramente da queste terre: nell'VIII secolo il «santo»
Padmasambhava, colui che convertì il Tibet al culto di Buddha,
sconfisse con mezzi magici numerosi demoni di ambo i sessi, ma non
li uccise, preferendo il loro giuramento di servire per sempre il
buddismo. I demoni hanno quindi libera cittadinanza in Tibet, per
strada è buona usanza infatti mostrare la lingua a chi te richiede,
perché mostrando che non la si ha verde si prova che si è umani e
non diavoli.
Sopra: il guru
Padmasambhava (VIII secolo).
Alcuni di questi hanno pure una valenza politica
essendo degli spiriti protettivi (dharmapala), c'è il demone
che protegge la nazione (Mahakala), il demone che
protegge i Gelugpa (Palden Lhamo, un mostro-femmina
adiratissimo che cavalca fra le fiamme sopra un oceano di sangue
bollente), quello per il sacro palazzo del Potala a Lhasa, la
mega-demonessa il cui cuore giace in fondo al lago Jokhang (Srinmo)
e tanti altri... spesso sono in guerra fra loro, e gli effetti di
tale demoniaca pugna non sono solo ascrivibili a battibecchi
liturgici: il caso noto come Dorje Shugden, che già ha
procurato controversie fra monaci sfociate a fini anni Novanta in
furiosi delitti rituali, è fra questi.
Sopra: il mostruoso demone-femmina
Palden Lhamo che
proteggerebbe i lama tibetani.
Di tutto quanto scritto sopra
poco o niente si trova nei media o sugli scaffali delle
librerie. In un fortunato saggio del 1998 dal titolo molto
indicativo, Prigionieri di Shangri-La, il
tibetologo americano Donald Lopez accennò a vari aspetti
mostruosi delle pratiche tibetane che venivano tenute segrete agli
occidentali, a cui invece viene somministrata l'immagine sorridente
del Dalai Lama campione del politicamente corretto più
metafisico: pace, gioia, serenità, rispetto per la natura,
bellezza... se pensavate così, spero che abbiate capito che vi
stavate sbagliando.
Sopra: Donald Lopez e
il suo libro Prigionieri di Shangri-La.
Perché, a qualsiasi latitudine lo si voglia
guardare, il buddismo è un culto del nulla, e quindi - non
bisogna essere cristiani per riconoscerlo - un culto del male.
E se il fine di un culto è il male, la via rituale per arrivarci,
oltre al delitto, è la magia nera, il commercio con i poteri
dell'inferno, e cioè quelìo che un tempo si chiamava, con una parola
che adesso quasi fa sorridere, «stregoneria». Il buddismo è
stregoneria, stregoneria totale.
Sopra: teschio usato dai lama per scopi magici.
Note
1 Estratto (pagg. 29-40) dal libro Contro il buddismo. Il volto oscuro di una dottrina arcana (Fede & Cultura, 2012). Con il permesso dell'Autore. 2 Cfr. R. Gnoli-G. Orofino (a cura di), Iniziazione Kalacakra di Naropa, Adelphi, Milano 1994, pagg. 28-29. 3 La traduzione di Adelphi è, infatti, significativamente corredata di grafici astrologici e di moderni disegni che spiegano le varie posizioni delle dita (le mudra) atte ai rituali. Difficile pensare che tali immagini fossero presenti negli originali, motivo per cui può essere lecito pensare che il valore di questo libro sia più che quello di testo scientifico, quello di vero e proprio manuale magico. 4 Cfr. R. Gnoli-G. Orofino, op. cit., pagg. 46-47. 5 Cfr. G. Mullin, The Practice of Kalachackra, Snow Lion Publications, Ithaka, New York, 1991, pag. 50. 6 È la stanza 35 del Sekoddesa, il «Riassunto dell'iniziazione»; cit. in R. Gnoli-G. Orofino, op. cit., pag. 125. 7 Ibid., pag. 196. 8 Ibid., pagg. 150-151. 9 Ibid., pag. 360. 10 Cfr. Victor-Victoria Trimondi, Der Schatten des Dalai Lama, Patmos Verlag, Düsseldorf 1999, pag. 80. 11 Cfr. R. Gnoli-G. Orofino, op. cit., pag. 189. 12 Ibid., pag. 189. 13 Cfr. J. Campbell, Traveller in Space: In Search of Female Identity in Tibetan Buddhism («Viaggiatore nello spazio; alla ricerca dell'identità femminile nel buddismo tibetano»), Continuum, Londra-New York, 1996. 14 Cfr. Victor-Victoria Trimondi, op. cit., pag. 37. 15 Ibid., pag. 19. 16 Cfr. M. Introvigne, Il ritorno dello gnosticismo, Sugarco, Milano 1993. 17 Premio Nobel per la letteratura nel 1990, curiosamente l'anno successivo al Nobel per la pace al Dalai Lama. 18 Cfr. Victor-Victoria Trimondi, op. cit., pag. 124. |