Premessa
Uno degli aspetti della religione cattolica che urta in modo particolare i suoi avversari è il suo considerare l'uomo come un essere vivente creato a immagine e somiglianza di Dio stesso. La nascita del positivismo e del razionalismo filosofico coincide con uno dei primi tentativi di offuscare tale concetto: il trasformismo darwinista.
Il ritenere l'uomo una specie di scimmia che si è evoluta e che ha sviluppato il linguaggio grazie al lavoro - come insegna Karl Marx (1818-1883) - è stato il primo passo sulla strada della cancellazione dell'idea stessa che l'uomo abbia un fine soprannaturale da conseguire. Con l'avvento del freudismo tale concezione compie un notevole passo in avanti. Come un mago dal proprio cilindro, Freud fa uscire dall'«inconscio» umano l'aspetto più irrazionale della mente.
Ponendo particolarmente l'accento sulla sessualità, il medico austriaco cerca di colmare l'abisso che separa l'uomo dai bruti; la sua visione riduttiva riconduce l'uomo ad una dimensione puramente naturale fatta di istinti e di bisogni materiali che non devono essere soffocati da alcuna morale, pena la caduta nelle malattie mentali più terribili.
Prefazione
Non c'è alcun dubbio sul fatto che il pensiero e l'opera di Sigmund Freud, insieme alla teoria evoluzionista elaborata da Charles Darwin (1809-1892), siano da enumerare tra i fattori che più di altri hanno fortemente contribuito alla formazione della mentalità odierna. Sdoganando la sessualità, finalmente liberata dai «tabù» imposti da una moralità castrante (quella cattolica...), Freud ha introdotto l'idea secondo cui il sesso sarebbe alla base dei processi che guidano e condizionano la nostra esistenza 2.
Questa convinzione, che ha le sue origini in una rilettura freudiana di quell'enorme serbatoio mistico-magico che è la Kabbalah ebraica, non solo è stata accettata da buona parte della psichiatria ufficiale, ma è divenuta oggetto di un'abile strumentalizzazione da parte di forze che avevano tutto l'interesse a che queste idee prendessero piede. Ci riferiamo alla simbiosi freudiano-marxista operata negli anni Sessanta dai vari ideologi della Scuola di Francoforte (Lukàcs, Marcuse, Fromm, ecc...), i quali, per scardinare l'ordine su cui poggia la civiltà occidentale e cristiana, hanno utilizzato le teorie di Freud in chiave marxista.
Il risultato di questa combinazione ha dato vita a quel grande evento, tutt'altro che spontaneo, che fu la contestazione giovanile del Sessantotto e la controcultura. La Rivoluzione Sessuale sbandierata e vissuta dagli hippy, il tentativo di sostituire la famiglia monogamica con altre forme di aggregazione umana (le comuni...) e altre trovate di quel periodo sono il frutto di questo tentativo. A questo punto, qualcuno potrebbe obiettare che l'utilizzo delle teorie di Freud per fini politico-sociali sia arbitrario e indesiderato dallo stesso padre della psicanalisi.
In realtà, Freud non era affatto estraneo a quella mentalità anticristiana di cui il Sessantotto si fece portavoce celandola dietro una facciata pacifista e filantropica. Pur essendo morto poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e quindi molto prima che le sue teorie avessero una diffusione su grande scala, Freud era perfettamente cosciente del fatto che le sue tesi fossero in stridente contrasto con quella moralità cristiana che detestava profondamente e che costituiva un ostacolo da rimuovere.
Nel 1938, durante l'annessione dell'Austria alla Germania (Anschluss), ad un suo assistente che lo invitava a lasciare Vienna per salvaguardare la sua incolumità, Freud rispose:
La sua avversione alla Chiesa di Cristo è d'altronde confermata dalla sua appartenenza al sabbatismo e all'Ordine del B'nai B'rith 4 («Figli dell'Allenza»), una potente Massoneria esclusivamente ebraica particolarmente attiva negli Stati Uniti. Ed è proprio sbarcando in questo Paese che Freud ebbe a dire (rivolgendosi agli americani): «Costoro non sanno che io porto la peste» 5.
Il suo apporto nella ciclocipa impresa finalizzata a scristianizzare il mondo è infine riassunto in queste parole di Sir Julian Huxley (1887-1963), primo Presidente dell'UNESCO, nonché membro di un importante circolo mondialista britannico come la Fabian Society:
Introduzione
Non abbiamo intenti propriamente biografici. Sigmund Schlomo Freud (1856-1939) ha fatto abbastanza per rendere difficile il compito dei biografi, distruggendo tempestivamente il materiale utile: «I biografi si arrovellino pure [...]; già adesso mi diverto al pensiero di come andranno tutti fuori strada». La figlia Anna (1895-1982), inoltre, ha continuato ad esercitare un'energica censura, sui documenti paterni in suo possesso, per nascondere al pubblico particolari, diciamo, poco simpatici.
E tuttavia l'esibizionismo, come egli lo definiva, ha indotto Freud a rivelare abbastanza di se stesso... sicché biografi autorizzati hanno tentato la loro impresa con risultati abbastanza soddisfacenti 7. Non abbiamo, pertanto, da sfondare porte che sono già discretamente aperte. Vogliamo, invece, attirare l'attenzione del lettore su alcuni aspetti della personalità di Freud, ritenendoli utili per interpretarne l'opera.
I freudiani riconoscono la consonanza fra la personalità e l'opera di Freud. Freud stesso ha ammesso l'incidenza dell'equilibrio della personalità dell'analista nell'esercizio della sua professione e nella riflessione sui problemi psicologici. Noi stessi, avendo qualche esperienza di studio, di ricerca scientifica e di attività educatrice, abbiamo acquisito la certezza della decisiva importanza che in questi campi assumono alcuni fattori della personalità.
Aspetto esteriore di Freud
Sul portone d'ingresso della sua abitazione viennese spiccava una insegna col nome di Sigmund: era il macellaio. Il professor Freud abitava di sopra. Aveva un portamento e un aspetto che rivelavano attenta cura di se stesso. Dolicocetalo, di modesta statura - particolare che gli creava, talvolta, qualche imbarazzo, teneva molto ad apparire giovane anche quando non lo era più. Sotto le pesanti sopracciglia il suo sguardo appariva spesso severo, perfino torvo: qualcuno dice che talvolta incuteva terrore, talaltra faceva indovinare la sua capacità di odiare.
I suoi modi erano rudi, il suo gestire irrequieto. All'occasione era loquace, ma si schiariva continuamente la voce e spesso sputava. Amava le passeggiate tra i boschi, nelle quali dimostrava un fiuto ammirevole per i funghi; a tavola gradiva prendere cibo concentrandosi in silenzio; fumava il sigaro quasi in continuazione, nonostante che egli fosse ben consapevole del danno che gliene derivava alla salute anche mentale e al rendimento della sua riflessione.
Sua salute fisica
Freud, che proveniva da un ceppo non del tutto sano, non godette di buona salute fisica. Afflitto da febbri ricorrenti, dovette lottare anche contro il tifo e il vaiolo. Soffrì di gravi forme di indigestione e di notevole ipertrofia prostatica; ciò gli procurò in continuazione fastidi facilmente immaginabili. Fu soggetto a forti raffreddori nasali, con preoccupanti complicazioni sinusitiche, a tonsillite e a una grave faringite.
Nel 1930, ebbe anche una broncopolmonite. Affetto da dolori reumatici al braccio destro e alla gamba sinistra, soffrì anche di forme cardiopatiche di probabile origine ansiosa. Fin dal 1917, comparvero i segni del cancro alla bocca, a causa del quale, dal 1923 al 1939, subì la spaventosa odissea di 33 interventi chirurgici, alcuni dei quali, tremendi, eseguiti in anestesia solo locale.
Sopra: il giovane Freud.
Cauterizzazioni,
raschiamenti ascessi, cisti, trapianti di pelle,
elettrocoagulazioni... non lo mortificarono quanto le conseguenze
della sordità all'orecchio destro e il restringimento orale che gli
avrebbe impedito perfino d'introdurre il sigaro fra i denti se non
si fosse aiutato con una molla. Una mostruosa protesi, che aveva
bisogno d'esser tenuta a posto con la pressione del pollice, gli
deformò il volto e l'eloquio. Freud soffrì per tutta la vita di
Rapporti familiari
Freud proveniva da una famiglia ebraica non religiosa, ma ancora attaccata ai riti (come la circoncisione che, forse, fece una notevole impressione al futuro teorico del complesso di castrazione). Il suo rapporto col padre fu certamente di scarsa armonia e stima; però Freud fu molto scosso dalla sua morte. Anche del suo rapporto con la madre - che lo adorava - si è sospettato a causa del suo modo astratto di parlarne. Infelice, e forse torbido, il suo rapporto con la vecchia governante, di religione cattolica, che fu poi consegnata al carcere a causa di un piccolo furto domestico.
Sopra: l'undicenne Sigmund Freud insieme al padre Jacob.
Precocemente geloso, egocentrico, eccessivo nelle emozioni e negli affetti, egli non ebbe rapporti sereni né col fratellastro, né col fratellino, né col nipote (quasi suo coetaneo, però maggiore di lui), né tanto meno con le sorelle, le cui esigenze furono, peraltro, sempre subordinate alle sue (e il modo è decisamente anormale, pur considerando i tempi e l'ambiente), fino alla tragica decisione di lasciarle a Vienna al momento di partire definitivamente per Londra.
Sopra: il sedicenne Sigmund Freud con la madre Amalie.
Sintomi di un certo disturbo nell'armonizzazione familiare del fanciullo possono forse considerarsi il fatto che a due anni il piccolo Sigmund bagnava ancora il letto e, soprattutto, il fatto che a otto anni egli orinò (deliberatamente, pare) nella camera da letto dei genitori. Sospendiamo ogni giudizio sulle sue fantasie incestuose.
Sopra: ancora Freud con la madre.
Anche il rapporto con la fidanzata Martha Bernays (1861-1951) non ci è sembrato bene impostato, soprattutto a causa dell'eccessiva possessività di Freud che giunse fino al limite del plagio. Riserve del tutto ragionevoli si potrebbero avanzare, del pari, sul suo rapporto matrimoniale con la medesima Martha, la quale idolatrò sempre il marito. Non si può dire che il suo rapporto educativo coi figli maschi sia stato coronato da successo; riserve sono state avanzate perfino sul suo rapporto con la figlia Anna, che il padre, con sorprendente decisione, volle personalmente «analizzare».
Rapporti con allievi e seguaci
Si può concedere che il gruppo iniziale degli psicanalisti non fosse formato dalla miglior pasta umana: molti di loro erano senz'altro malati; altri avevano alle spalle una carriera sconquassata e schermavano il loro fallimento con atteggiamenti insulsi, artificiosi, infantili, pretestuosi; altri avevano un indispensabile bisogno del litigio intestino... Son cose da mettere sulla bilancia.
Tuttavia, non si può fare a meno di notare che Freud fallì completamente nell'instaurare con loro un rapporto costruttivo. Non seppe valutare doti e personalità; la sua carenza di tatto, la sua mancanza di riserbo, la sua inclinazione al pettegolezzo incrementarono lo spirito di discordia e di rissa. Egli fu per allievi e seguaci termine di un transfert spesso ambiguo e quasi mai risolutore e positivo.
Ne sono prova: la loro adulazione, la loro idolatria verso il maestro «dotato di magici poteri», la loro passività intellettuale per la quale non lavoravano che per compiacere il maestro e volevano ad ogni passo essere confermati da lui, mentre venivano a loro volta scomunicati se si allontanavano troppo dalle sue vedute.
Non proprio di rado egli sembrò con loro autoritario e perfino arbitrario; manovrò per psicanalizzarli tutti obbligatoriamente, trovando opposizione, tuttavia, in Victor Tausk (1879-1919) e Otto Rank (nato Rosenfeld; 1884-1939); talvolta, sembrò mancare loro di rispetto. Di qualcuno difese ad oltranza intollerabili stramberie; verso altri fu insofferente fino a diventare o a sembrare cattivo. In conclusione: la compagnia psicanalitica fu sempre in crisi di rapporti umani e colui che doveva esserne centro di coesione fu spesso occasione di provocato dissidio; allievi e maestro non stabilirono un rapporto fecondo di comunione spirituale.
Sua stima del denaro
Il giovane Sigmund, che a diciassette anni acquistava libri senza ragionevoli prospettive di poterli pagare, può suscitare qualche inquietudine, ma il libero docente Freud, che a Parigi approfitta della cordiale conoscenza di una coppia senza figli per fantasticare di diventarne l'erede, mostra di sé un aspetto davvero strano. Difatti, mentre la famiglia paterna versava nella squallida penuria dell'indispensabile, Freud spendeva abbastanza per il fumo e per le carte, andava a godersi drammi, commedie e opere liriche, andava ogni giorno dal barbiere e, in breve, «mancava di previdenza e di senso della realtà».
Bussava continuamente a prestiti che, per la loro consistenza e continuità, pongono interrogativi senz'altro degni di approfondite indagini da parte dei futuri biografi. Non ci pare d'essere malevoli se notiamo che proprio nel tempo in cui i suoi mezzi economici più essenziali dipendevano da colleghi da lui disprezzati, egli faceva acquisti archeologici tali da non deporre a favore del suo equilibrio in questo settore tanto delicato della vita.
Attuò la decisione di sposarsi senza prospettive di sufficiente guadagno. Invano la madre della fidanzata gli osservava che «metter su casa senza i mezzi necessari è una bestemmia»; privo di mezzi affittò un ampio appartamento proprio nel miglior quartiere dei professionisti di Vienna, mentre alla vigilia delle nozze dovette farsi prestare i soldi del viaggio dalla sua futura cognata. Freud si mostrò anche avido.
«Per pochi miseri gulden» - come gli rimproverò Martha - pretendeva che la fidanzata desse del delinquente al proprio fratello che ne era del tutto immeritevole. Fissò onorari di così buon livello da permettergli considerevoli risparmi (poi perduti con l'inflazione dovuta all'economia di guerra), ma - ciò nonostante - pompò profumati onorari perfino dai suoi allievi ai quali, successivamente, mandava pazienti selezionati con oculate scremature, trattenendosi sempre i più danarosi 8.
Sopra: Sigmund Freud e la moglie Martha.
Si rimane pensosi quando ci imbattiamo nella seguente confessione: «Lavoro e guadagno si identificano in me stesso sicché sono diventato tutto una cancrena». Sembra che il motivo principale per cui desiderasse il Premio Nobel fosse proprio il denaro che lo sostanzia. Nel 1920, aveva già ripreso a tesaurizzare e giunse a metter da parte una bella quantità di monete d'oro che, al momento dell'emigrazione, poté trasferire, insieme a tutte le altre cose a cui teneva. Solo le sorelle lasciò al destino dei campi nazisti e per questo preciso motivo: affermava di non poter prevedere di essere in grado di mantenerle a Londra.
Sua stima della sofferenza
Non occorre affatto essere dei mistici per apprezzare il grande valore della sofferenza; occorre solo un solido equilibrio interiore e un certo affinamento spirituale. Freud era lontano dal trarre il dovuto profitto dalle proprie debolezze che, in genere, tentava di scaricare sugli altri. Più e più volte emerge nel suo animo una feroce invidia verso il prossimo più fortunato, anche verso i proprî figli e i proprî allievi.
Quando gli morì una figlia, il suo unico commento fu di averne ricevuto «una profonda ferita narcisistica». La cosa più sorprendente è che egli era consapevole della disumanità di questo suo modo di soffrire. Lo stesso anno in cui gli si manifestò il cancro, gli morì un nipotino a cui era molto attaccato: fu come se gli si fossero inaridite le ultime risorse affettive: si stabilizzò in un'indifferenza totale della vita e del mondo (della quale, peraltro, erano emersi chiari segni quarant'anni prima, in certe sue lettere).
Confidò: «Questo è il segreto della mia indifferenza che la gente chiama coraggio». E difatti egli si preoccupò subito di raccomandare di farlo «scomparire dal mondo con decoro», ossia di evitargli inutili sofferenze; preghiera che rinnovò più volte, nel corso della terribile malattia. Meditando su questa carenza, lo ammettiamo, la nostra critica ha ceduto alla pietà.
Stima di se stesso
Dice di essere stato ambiziosissimo fin dalla fanciullezza. Si identificava in Annibale, in Massena, in Cromwell, in Giacobbe, in Mosè, in altri eroi. Giovinetto, credette ad un ciarlatano il quale gli profetizzò che sarebbe diventato ministro di Stato. Studente di Medicina, sperò di essere un genio e sognò di essere celebrato come il più eccellente degli uomini in un busto nell'aula magna dell'Università di Vienna.
Sopra: lo scultore Oscar Nemon (1906-1985) plasma un busto di Sigmund Freud.
Si persuase di essere un predestinato e (alla fidanzata) scriveva che avrebbe dato la vita volentieri «per un solo grande momento di gloria che potesse passare alla Storia». Da Parigi confidava di sentirsi capace di portarsi ai primi posti dell'umanità; più tardi si attribuì il piglio del conquistatore; a ventisei anni pensava seriamente ai suoi futuri biografi; a ventisette scriveva di sé in terza persona; con la società psicanalitica pensò di mettere le basi della propria immortalità; quando contrastò l'influsso di Carl Gustav Jung (1875-1961), squalificò il termine junghiano «complesso» perché
paragonandosi così a un dio che aveva potere di dare o negare privilegi sovrani; si paragonava a Copernico, a Darwin, a Einstein, insinuando che egli, però, era in qualcosa superiore a loro. Giunse a dire: «Ho dato al mondo più di quanto esso abbia dato a me». Di più:
Riteneva d'aver fatto il miglior uso possibile del suo «presunto libero arbitrio»; di essere persona moralissima; di non aver mai fatto nulla di basso e di malvagio; di essersi sempre comportato onorevolmente, generosamente e gentilmente e (dulcis in fundo!) di essere migliore della maggior parte degli uomini. Anzi, su quest'ultimo punto, era portato a rinforzare i toni:
Rigidità mentale
Persone che erano state in lunga consuetudine ed intimità con Freud - come Rank e Sandor Ferenczi (1873-1933), riscontrarono in lui uno sbalorditivo sottosviluppo mentale. La loro testimonianza è sospetta. Una cosa, però, sembra certa: Freud era straordinariamente testardo. Non diciamo fermo nelle convinzioni assodate, bensì irremovibile in opinioni gratuite e molto spesso errate. Non prendeva in considerazione le critiche oppure volgeva in affronto personale ogni contrasto ideologico.
Non gradiva punto confrontarsi con le idee originali degli altri e, comunque, queste non avevano mai il potere di indurlo a rivedere le proprie. Scriveva di getto e i suoi collaboratori gli facevano notare, talvolta, oscurità, ambiguità, contraddizioni... Niente da fare! Egli nulla cambiava, a costo di risultare uno scrittore sciatto (e di riconoscerlo!). Qualunque educatore si preoccuperebbe nel constatare una simile rigidità mentale.
Qui, però, le preoccupazioni sono anche maggiori perché Freud ha ammesso: «Per me è sempre un mistero quando non riesco a capire qualcuno nei termini di me stesso». Wilhelm Fliess (1858-1928) - che indubbiamente la sapeva lunga sul modo di pensare di Freud - vide dove questo atteggiamento conducesse l'amico: a leggere i proprî pensieri in quelli dei pazienti. Naturalmente, questa rigidità gli fu causa di gravi errori, specialmente nei giudizi e nelle valutazioni concernenti le persone.
Invadenza e preponderanza della passionalità nella sfera intellettuale
Freud fu soggetto a violente passioni. Alfred Ernest Jones (1869-1958), il suo biografo, riconosce che fu molto suggestionabile. Spesso sue iniziative e reazioni che, a prima vista, si direbbero scientifiche o culturali, considerate attentamente appaiono piuttosto dettate da una indisciplinata passionalità.
Rimase del tutto soggiogato dalla personalità di Ernst Brücke (1819-1892) e di Jean-Martin Charcot (1825-1893). Fino all'età di quarantacinque anni egli fu del tutto succube di Fliess, da lui rivestito di ogni magnificenza intellettuale.
Quest'uomo, di una presunzione astrale, era fanatico teorizzatore di una numerologia cosmica che invece di indurre il Nostro a prudenti interrogativi, lo esaltava in riconoscimenti che sembravano vaneggiamenti (il Keplero della biologia!). A sua volta Freud attendeva da Fliess ben altro che un aiuto critico e sospirava: «La tua lode mi è nettare e ambrosia». Ben nota è l'infatuazione di Freud per Jung.
Quando lo nominava, nei primi tre anni del loro rapporto, gli si illuminavano gli occhi, lo definiva la mente eletta, figlio ed erede, lo paragonava a Giosuè che consola Mosè... E cosa, se non un apriorismo passionale, poté indurre Freud a stimare tanto esageratamente un «pallonaro» come Wilhelm Stekel (1869-1940), il quale, invitato, una volta, a provare le sue gratuite affermazioni osò rispondere ai colleghi psicanalisti: «Io sono qui per fare scoperte. Sta agli altri provarle, se lo desiderano».
Freud rimase indubbiamente affascinato anche da Ferenczi (che sentiva tanto congeniale), né la manifesta carenza di giudizio critico del «Gran Visir», come egli lo chiamava, né il suo infantilismo affettivo, o il suo dispotismo, frenarono Freud dalla decisione di conferirgli importanti responsabilità direzionali. Il posto concesso da Freud alle proprie passioni sembra davvero molto grande se dobbiamo prendere sul serio quanto egli afferma circa il proprio metodo di lavoro: «Sogno per giorni interi [...]. Quasi non so cosa io stia effettivamente facendo...». La vita intellettuale dello studioso disciplinato non si trova certo rispecchiata nella seguente confessione di Freud:
Sopra: Sandor Ferenczi e Sigmund Freud.
Ma dove l'invadenza della passionalità appare del tutto scoperta, insieme alla sua preponderanza sul senso critico, è nel rapporto con la fidanzata. Jones dice giustamente che l'atteggiamento amoroso rivela l'essenza della personalità e sottopone a verifica decisiva l'equilibrio mentale della persona. Ora, ci pare che quando Freud, in vecchiaia, disse, senza attenuazioni, che l'innamoramento è un fatto patologico, si riferisse senz'altro alla propria esperienza nella quale riconobbe dei tratti di pazzia.
Egli non permise un onesto e rispettoso confronto della personalità della fidanzata con la sua. «Temo proprio di avere tendenze dispotiche», ammise, il che non sarebbe stato scandaloso se egli avesse fatto qualcosa per controllarle. Invece non sopportava la discussione neppure se si trovava in mezzo alla strada e acutizzava i contrasti in un clima, definito da Jones, «di pura tragedia». Non è qui il caso di sopravvalutare la sua gelosia, ma non si può non rilevare che certe sue pretese di prove amorose fossero del tutto irragionevoli. Martha aveva delle preoccupazioni filiali per la salute della madre? Freud si riteneva posposto e le scriveva:
Sopra: Sigmund Freud e Alfred Ernest Jones.
Freud giunse a porre a Martha un ultimatum in due punti: In qualunque contrasto con i suoi familiari, Martha avrebbe dovuto prendere sempre le parti di lui, appartenendo a lui solo; avrebbe anche dovuto rinunciare ai pregiudizi religiosi dei suoi familiari. Queste proposte dimostrano che Freud era davvero poco ragionevole e troppo passionale. Ma c'è di più. Non era un ragazzo quando conobbe Martha; aveva ventisei anni, infatti.
Pertanto, ha bisogno di una spiegazione il fatto della corrispondenza giornaliera fra i due. Giungevano a scriversi anche più volte al giorno e le lettere erano lunghe, talvolta di dodici pagine. A che cosa mirava Freud? Ad ottenere una completa identificazione di Martha con se stesso in modo da «percepire in lei la sua impronta». Egli, dunque, non amava Martha, ma se stesso; tanta inoggettività, tanto irrealismo non potevano non esser frutti di invadente passionalità. «Tu non hai idea di quanto io ti ami», scriveva a Martha; ma aggiungeva subito minaccioso: «Spero di non dovertelo mai dimostrare».
Se, come pare, Freud alludeva, con queste parole, al suicidio, allora è il caso di ricordare che, secondo lui, il suicida intenzionalmente uccide, in se stesso, colui nel quale egli si è identificato. Anche questo dimostra che la passionalità travolgeva la mente di Freud. In prossimità del matrimonio, la madre di Martha rivolgeva al pretendente della sua figliola questo sensato e realistico ammonimento:
Sopra: Sigmund Freud e la giovane Martha.
Sembra un paradigma di tanti comportamenti di Freud.
Superficialità di giudizio
Freud conobbe la fidanzata tramite il fratello di lei, che gli era amicissimo, Eli. A quindici giorni dal fidanzamento Eli gli era diventato «pericoloso», poi «insopportabile». Ben presto, però, Freud ammetteva di essere stato con lui molto ingiusto. Riconobbe, anzi, che Eli era «comprensivo e di larghe vedute in tutte le faccende importanti». Se ne scordò presto e su di lui concentrò nuovamente ostilità e malevolenza. Abbiamo già accennato agli strabilianti rovesciamenti della sua stima nei confronti di Fliess, di Alfred Adler (1870-1937), di Stekel, di Jung, di Tausk..., ma la serie sarebbe lunga.
Anche Wilhelm Reich (1897-1957) 9 godeva presso di lui di altissima considerazione... un tempo. E su Rank quante volte si sbagliò? Ferenczi ebbe a lamentare di essere stato trattato molto male da Freud, che in precedenza l'aveva definito «suo paladino». C'è di più. Ferenczi e Rank, in Lo sviluppo della psicanalisi, sostengono che non è necessario analizzare l'esperienza sotterranea dell'infanzia: Freud prima consente, poi dissente.
Quando Rank espose il suo iperbolico entusiasmo per il nuovo mito della rinascita (in Il trauma della nascita), Ferenczi disse che Rank aveva operato il più importante sviluppo psicanalitico: Freud prima dissentì, poi aderì con compiacenza. Di Abraham Arden Brill (1874-1948) scrive: «Si comporta in modo vergognoso: bisogna lasciarlo perdere». Subito dopo, però, cambia parere: «È un uomo a posto, degno di tutta la fiducia, un grande acquisto». Il fedele Jones fu oggetto di oscillante apprezzamento, alternato ad offensivi sospetti e ad imprudentissime accuse.
Verso Karl Abraham (1877-1925), Freud prima si mostra duro, sgarbato e, diciamo pure, irrazionale; poi lo chiama «mio bronzeo baluardo» e da la colpa del suo errore alla vecchiaia!
Anche verso Melania Klein (1882-1960) riscontriamo un'oscillazione di atteggiamento spiegabile solo con la superficialità abituale dei suoi giudizi. Dirittura e semplicità interiore. Non pare che il suo abituale modo di ragionare fosse rettilineo. Freud stesso ci informa che il suo pensiero batteva «percorsi sinuosi».
Forse anche Salvador Dalì (1904-1989) ne ebbe la sensazione se è vero che gli stilò, mentre parlava, uno schizzo della testa con il cranio a forma di chiocciola. A Parigi, Freud è tutto in adorazione di Charcot e chiede al maestro il privilegio di essere il traduttore delle sue lezioni, ma il suo vero scopo è quello di «presentarsi vantaggiosamente ai medici tedeschi».
Verso il 1880, a Vienna, si mise a studiare l'impiego terapeutico della cocaina. Volle essere sbrigativo ed esortò altri a persistere in certe direzioni di ricerca mentre lui se ne andò dalla fidanzata a Berlino. Un collega, così, verificò l'importantissimo impiego della cocaina come anestetico locale nella chirurgia oculistica. Lamentandosi del mancato successo, vari anni dopo, ne attribuì la colpa alla fidanzata! Non basta: nel 1909, disse che il merito della scoperta era suo. Qui non si tratta di giudizio oscillante, ma di mancanza di dirittura spirituale.
Prima Josef Breuer (1842-1925), poi Charcot gli avevano fatto notare la costanza della connessione fra disturbi nervosi e comportamenti erotico-genitali. Eppure, nel 1896 Freud scrive che l'uno e l'altro la pensavano all'opposto. Non era un malinteso, e neppure un'amnesia; era una bugia. Torna bel bello da Parigi con il proposito di stupire i viennesi con le ipotesi di Charcot.
Gli viene, però, osservato che i fatti, da cui la nuova teoria prende le mosse, sono ben noti da molti anni; lo si invita, pertanto, a provare l'ipotesi proclamata, ciò che egli non può fare. Ebbene, nell'autobiografia, Freud viene a raccontarci di aver pagato la sua rivelazione con l'esclusione dal laboratorio dell'Università e, quindi, dall'insegnamento: due bugie.
Salute psichica
Dalle biografie di Freud emergono non pochi tratti inquietanti di carattere. Freud era psichicamente sano? Il suo umore labile e il suo «desiderio di essere altrove», le sue esagerate apprensioni come le sue strabilianti dichiarazioni di fiducia ci mettono sulle piste di una instabilità che, si può dire, non conobbe pause. Certamente questo turbamento era anche indotto da cause, chiamiamole, morali.
Ad esempio, la smodata ambizione del successo, come Freud stesso capì, gli «rovinava il sistema nervoso» (e, per una volta, egli apprezzò la modestia dei disprezzati colleghi goym 11), ma bisogna pur ammettere che gli anni del successo furono proprio i più infelici, dal punto di vista della serenità e dell'equilibrio dei fattori psichici. Si riaffaccia così l'interrogativo sulla sua salute, diciamo, mentale. Freud non era più un ragazzo quando andò a Parigi; eppure si sentì tanto solo da crogiolarsi in una gran voglia di piangere! Era dunque incline a forti depressioni?
Proprio così. Vi reagiva consumando cocaina. «Mi ha sollevato alle stelle in modo meraviglioso», confidava; e continuò a prenderne per almeno quindici anni. Ma, dalle stelle, sprofondava, poi, nelle stalle: si abbandonava a lunghe ore di ozio e di noia, si afflosciava in una paralisi intellettuale caratterizzata da restringimento e offuscamento della coscienza, da pensieri crepuscolari, da tetre ansie di morte. Jones parla di psiconevrosi assai notevole relativamente agli anni 1890-1900 (il periodo delle opere più importanti).
Ma non ci sembra si possa parlare di rilevanti miglioramenti successivi: nevrastenie, ansie, ossessioni (era proprio lui a classificarsi nel «tipo ossessivo») sono manifeste anche nel decennio successivo (incluso il periodo di Totem e Tabù). Nel 1923, Freud riconosceva la propria decadenza intellettuale; nel 1924 si diceva psichicamente indebolito, incapace di concentrare l'interesse mentale. Diceva: «Non sono più lo stesso uomo; sono stanchissimo».
Quando si accinse a scrivere il libro sulla religione sapeva di essere esaurito. Perennemente ansioso per ogni sua partenza ferroviaria, per l'arrivo quotidiano della posta, per l'attesa delle sue nuove pubblicazioni, accusa «stati ipomaniacali» e, soprattutto, si fissò, per decenni, sul superstizioso pensiero della morte che lo indusse ad un atteggiamento masochistico, prono all'esaltazione dell'elaborazione della teoria Eros e Thanatos, appunto, ossia della prevalenza del negativo teorizzato quale supremo principio primordiale, come vedremo.
Sessualità di Freud
La sua forte passionalità coinvolgeva la sfera sessuale? L'alternanza e la contraddittorietà dei suoi sentimenti ha portato stonature nel suo sviluppo erotico? Abbiamo visto che Freud è stato afflitto da nevrastenie per la massima parte della sua vita. Possiamo applicare a lui il principio (di cui lui fu sempre sostenitore) secondo il quale tali disturbi psichici sono in relazione a disturbi della funzione sessuale?
E quest'ultimo tipo di disturbi va diagnosticato sul piano fisico, oltre che psichico? È fuori discussione il suo trauma infantile nel vedere, e rivedere, le nudità della sua giovane mamma; sono fuori discussione le sue precocissime fantasie di stupri della sorellina e, forse, della madre; bisogna inoltre prendere atto delle sue fanciullesche ma insistenti curiosità di tipo incestuoso e, forse, di qualche torbido rapporto con la governante.
Tuttavia, si rimane dubbiosi sulla reale incidenza patologica di queste pur dannose esperienze. Generalmente si è del parere che sul piano fisico l'erotismo di Freud si sia dimostrato piuttosto dimesso e si sottolinea che a quarantun'anni Freud scrisse: «L'eccitamento sessuale non è più cosa per una persona come me». Noi, però, avendo motivo di pensare che la sua vitalità sessuale fu non tanto dimessa quanto distorta, saremmo inclini a non sopravvalutare tali dichiarazioni.
Intanto, parallela e contemporanea a quella ora riferita, ce n'è un'altra che mostra troppo entusiastico interesse per un metodo (di calcolo?) che liberasse il piacere sessuale da ogni preoccupazione di concepimento. Poi bisogna mettere in conto l'incidenza che può aver avuto la malattia prostatica sull'esercizio della funzionalità sessuale. Sarebbe, comunque, da chiarire ulteriormente la cornice psicologica e fisiologica del fallace tentativo chirurgico di ringiovanire i testicoli eseguito su Freud quando aveva la bella età di sessantasette anni.
Si rimane un po' sconcertati nel constatare che il suo atteggiamento generale nei confronti della sessualità è stranamente ambivalente: da una parte, infatti, ci sono molti segni del suo anomalo senso di vergogna e di inibizione di fronte al sesso; dall'altra notiamo un furore antimoralistico che lo portò a larghissime benevolenze per delle oscenità e ad esporre temerariamente se stesso e il movimento a giudizi ingiuriosi e a non gratuiti sospetti di incitare al libertinaggio (sospetti riconosciuti non infondati perfino da personalità eccezionalmente ben disposte verso Freud e la sua opera). Forse giocano molti fattori in questo comportamento, ma qualche luce può apportarci la considerazione specifica dei rapporti sessuali ed erotici da Freud effettivamente instaurati.
Rapporti eterosessuali
Prima fase (dai 15 ai 25 anni)
Seconda fase (dai 25 ai 40 anni) A 26 anni, Freud conobbe Martha e la volle. Precedentemente la ragazza era stata sul punto di sposare un vecchio riccone di cui, ovviamente, non era punto innamorata. Per quanto Freud non rappresentasse affatto il tipo ambito, Martha non doveva essere una ragazza difficile da abbordare: lo stesso giorno che ricevé, con qualche tenerezza sensibile, la dichiarazione amorosa di Freud, ricevé anche effusioni e baci da un amico del medesimo Freud; l'intraprendente giovanotto era, a sua volta, fidanzato di una cara cugina della medesima Martha.
L'ipotesi che Freud abbia trattenuto con Martha dei rapporti sessuali molto spinti, durante il fidanzamento, ci appare fondata. Freud era inquieto per il pallore e le occhiaie che talvolta caratterizzavano il volto di Martha e dubitava che questi fenomeni fossero causati dagli «ardenti abbracci» che si verificavano durante i loro incontri. In una lettera, scritta al termine di un periodo di malattia, Freud confida apertamente alla ragazza l'ardente desiderio carnale di lei. In una lettera scritta prima del matrimonio, leggiamo questo inciso: «Ti ho fatta mia sotto ogni aspetto».
Freud ricevé l'amata, per un certo periodo, nella stanza a lui assegnata nell'ospedale dove risiedeva. Ma c'è un particolare degno di nota: questi incontri erano preceduti da stati psicologici di forte agitazione e depressione. Ohibò! E che faceva Freud? Se ne difendeva con la cocaina onde (scrive Jones) «conseguire la virilità e godere la felicità». Fini importanti, indubbiamente, ma, a giudicare dai mezzi, esposti, nel Nostro soggetto, ad estremo pericolo di scacco.
E quando Martha era lontana Freud non si curava minimamente d'altre donne, preferendo consolarsi con lo stesso afrodisiaco. Disinteresse per altre donne o avversione per le donne? Da Parigi Freud scrive alla fidanzata questa incredibile notizia: «La bruttezza delle donne parigine è difficile a descriversi: non ce n'è una che abbia un viso passabile». Se Freud avesse scritto così al fine di tranquillizzare Martha con una menzogna, sarebbe stato un imbecille. Del resto non ci sono segni rilevanti della gelosia di Martha nei confronti di Freud.
Il nostro parere è che Martha non avesse alcun bisogno di essere tranquillizzata e che Freud si esprimesse sinceramente: le parigine per lui erano brutte, anzi quasi spregevoli. Il che ci fa venire in mente l'apologo esopiano della volpe e dell'uva. Freud si sposò e generò figli. Si dedicò specialmente alle nevrosi delle femmine viennesi e sapeva quel che diceva quando parlava di transfert; tuttavia, non emerse mai che egli avesse moltiplicato il partner del suo rapporto eterosessuale, finché a quarantun'anni anni disse d'aver chiuso il capitolo dell'«eccitazione» sessuale.
Terza fase (dopo i 40 anni) È stato giustamente notato che Freud, specialmente nella maturità, si è mostrato molto imbarazzato di fronte alla donna, oscillando fra l'idealizzazione e l'arroganza, il che suggerisce meditazioni pietose senza bisogno di saper di psicanalisi. Gli piaceva attorniarsi di donne. È significativo, inoltre, che gli piacesse l'intimità di donne mascoline, sofisticate, narcisistiche e intellettuali. Se ne indicano varie e questo capitolo della sua vita meriterebbe indagini più accurate.
Abbiamo avuto il sentore di vari triangoli in cui Freud si è lasciato senz'altro coinvolgere, ma solo su un piano psicologico, talvolta denso di ambiguità. Si compiacque del corteggiamento di cui fu oggetto da parte di Lou Andreas-Salomè (1861-1937) 12, amante d'alto bordo che, però, mentre faceva analisi con Freud, non disdegnava il letto di Tausk, il cui rapporto affettivo con Freud era certamente morboso.
Successivamente, durante il tragico triangolo «analitico» Freud-Deutsch-Tausk, Helene Rosenbach Deutsch (1884-1982) ebbe la convinzione che il suo maestro analista fosse innamorato di lei, mentre costei - non sappiamo con quanta consapevolezza - riversava su Freud l'intero bidone delle torbide confessioni di Tausk che contemporaneamente lei stava analizzando.
Rapporti omosessuali
Freud riconobbe, sia pure tardivamente, il suo errore circa l'attività incestuosa del proprio padre, ma, molto probabilmente, ebbe su questo rapporto, in cui egli figurava come l'oggetto libidinoso passivo, fantasie di tipo maniacale, fin dai tempi della fanciullezza, altrimenti pare difficile spiegare il suo errore. Le possibili spiegazioni psicanalitiche di questo fenomeno non interessano quanto l'annotare (a causa del suo possibile significato autobiografico) un commento dello stesso Freud su un'altra persona la quale «dopo la morte del padre si privò d'ogni soddisfazione con l'altro sesso, per un tenero senso di colpa».
Meno incerto il suo rapporto con il nipote (maggiore d'età) John, suo compagno inseparabile di giochi (non sempre innocenti) e di immaginarie gratificazioni erotiche, il quale mantenne su di lui un notevole ascendente. Trasparì sempre dalla sua persona qualcosa di femmineo, di vulnerabile, ed egli avvertiva vagamente di essere fiutato con sospetto e istintivamente sottovalutato.
Ormai uomo lo troviamo ingolfato in una «intima amicizia» con un eccentrico drogato dal quale era (non proprio scarsamente) finanziato: Ernst Fleischl von Marxow (1846-1891). Freud aveva per lui una sorprendente infatuazione («è stato sempre il mio ideale») che resistette anche dopo che Fleischl entrò nelle sabbie mobili dell'intossicazione. A Martha, che forse aveva avuto dei sospetti, Freud assicurò:
Dal 1882, per più di dieci anni Freud mantenne un'intima amicizia con Breuer, il quale gli passò un mensile per molti anni e gli dette un importante e rischioso appoggio quando venne il momento di lanciare la psicanalisi. Però l'ammirazione, la solidarietà e la gratitudine di Freud per Breuer svanirono del tutto e si convertirono in veleno quando Freud poté fissare le sue pupille su quel sole radioso che si chiamava Fliess (altro suo finanziatore, naturalmente, generoso del resto, anche con il fratello di Freud, Alexander).
Sopra: Sigmund Freud con il fratello Alexander.
Breuer fece di tutto per ingelosire la moglie di Fliess sui rapporti tra i marito e Freud e questa signora fu reattiva allo stimolo, avendone «buone ragioni», nota Jones. L'amicizia tra Freud e Fliess fu «quanto di più intimo si possa immaginare», tanto da imporre ad Anna Freud una rigorosa censura sulla pubblicazione del carteggio dei protagonisti 13.
Amicizia «nevrotica» in cui Fliess, ahimè, rappresentava il padre da adorare. Fliess era il teorico della bisessualità che incantò il bisessuale Freud sulla precisa misura del ciclo vitale che toccava al perfetto bisessuale (cinquantun'anni) ed era entusiastico fruitore del meraviglioso e magico farmaco che il depresso Freud aveva già in tanta considerazione: la cocaina.
Nel decennio 1890-1900, i due solevano appartarsi, a lunghi intervalli, durante l'anno, in posti lontani dalla loro residenza, per convivenze che duravano due, tre giorni. Freud aveva di questi «strani incontri» un desiderio spasmodico e attingeva una soddisfazione incomparabile dallo «stare vicino» a Fliess. Scriveva: «Nessuno può sostituire i rapporti con un amico che un lato particolare di me stesso (forse femminile) richiede».
Questi peculiari ritiri li chiamava, con allusivo ed equivoco latinismo, «congressi». Racconta Jones che nel 1896 Freud guardava ad uno di questi «congressi» come alla «soddisfazione di fame e sete». Dopo l'incontro di Norimberga del 1897, per il quale aveva tanto «sospirato», Freud è in uno «stato di euforia permanente» e lavora «come un giovane». Tre mesi dopo guardava ad un nuovo «congresso» come ad «un vero appagamento di desideri, un bel sogno che si realizzerà». La sua freschezza nel lavoro è in funzione della distanza da un «congresso». Nell'aprile del 1898, non avendo potuto appagare questo bisogno, Freud scrisse:
Le circostanze della rottura con Fliess (1900) rimangono alquanto oscure. Nel 1901, Freud propose invano a Fliess di scrivere insieme un libro sulla bisessualità; invano, nel 1902, inviò un appello per un riavvicinamento; invano mandò dalla evocativa «Italica Tellus» una cartolina all'amico che una volta aveva detto di voler mantenere «per sempre». Successe il fattaccio Weininger...! Nel 1906, un ultimo incontro avvenne fra i due in una stanza del Park Hotel di Monaco: ci fu un litigio definitivo e Freud ebbe sintomi di svenimento.
Fu un colpo duro. Ancora nel 1923 Freud dava segni di risentimento per essere stato abbandonato da Fliess. «Superata la faccenda di Fliess» Freud disse di essersi trovato a fronte «un piccolo Fliess redivivo». Era Adler 14. Lo spunto meriterebbe approfondimenti (come anche il suo speciale rapporto con Rank e con l'ambiguo Stekel). Poi ci fu il caso «Jung», il cui sottofondo omosessuale è esplicitamente ammesso.
Jung, il cui passato non era stato del tutto limpido, concepì per Freud sentimenti «filiali» non proprio lineari. Freud stravide per la nuova stella. Costui era molto legato ad un suo superiore, Eugen Bleuler (1857-1939), il quale teneva moltissimo a che Jung non bevesse alcolici. Pranzando insieme ad Jung (a Brema, nel 1909), Freud persuase il suo delfino a rinunciare all'astinenza dal vino: bevvero insieme. Bicchiere galeotto! Freud aveva dunque spodestato Bleuler: oh, suprema esperienza!
Freud svenne. Seguì il viaggio americano di Freud e poi il successo americano di Jung; fra i due si addensarono ombre, equivoci, gelosie, rivalità. Nel 1912, Freud incontra Jung al Park Hotel di Monaco nella stessa stanza dove sei anni prima aveva definitivamente rotto con Fliess. Nel corso di una amara contestazione Freud sviene nuovamente, Jung lo prende fra le braccia e Freud riprende subito i sensi mormorando: «Come dev'esser dolce morire» 15.
Fino all'ultimo, ambedue si trattarono piuttosto femminilmente: si rimproverarono reciprocamente la «nevrosi» ed ognuno si tenne la sua 16. Mentre si oscurava l'astro svizzero, Freud non era del tutto insensibile agli approcci di Ferenczi, altro tipo piuttosto femminile, assillato da un desiderio insaziabile d'amore e di illimitata intimità. Freud, però, non poté nel 1910 contentare il suo spasimante perché - come egli confessò - aveva ormai potuto riassorbire almeno una parte delle sue cariche omosessuali.
Nel 1911, Ferenczi illuminò il Congresso Psicanalitico di Vienna col suo studio sulla omosessualità (però, anche nel primo Congresso, quello del 1908, l'omosessualità aveva avuto una considerazione speciale). Era un discorso fra specialisti (anche Lou Salomè era amica intima di una lesbica) di non facile comprensione. Freud, che già aveva scritto in modo tanto tollerante per la masturbazione, ebbe ad esprimersi con indulgenza circa l'omosessualità e sentenziò:
Ecco cosa succede quando l'uomo si «accorda» con i proprî vizi: da libero diventa schiavo.
È interessante notare che quando una donna di mezza età, da lui curata per depressione, si trasformò in una lesbica attiva immune da senso di colpa, egli esultò per il «successo della terapia analitica». Nel 1935, egli scrisse:
La lezione era stata tempestivamente bene appresa anche da uno dei primi psicanalisti italiani, Gustavo Modena (1876-1958), il quale aveva già chiaramente asserito che l'omosessualità non è affatto un fenomeno degenerativo. Herbert Marcuse (1898-1979) arrivò «ultimo» su questo binario morto.
Senso di responsabilità medica
A ventidue anni Freud prevedeva che la sua «vera professione» sarebbe stata di «mutilare gli animali». A ventitre anni, sotto le armi, avendo il solo dovere di frequentare l'ospedale, fu messo agli arresti per essersi assentato senza permesso ed aver mancato di assistere alle visite dei malati per otto volte di seguito. Ancora a ventisei anni egli sperava di non fare il medico.
In realtà, riferisce Jones, Freud non si sentì mai un vero medico (professione che egli, psicologicamente, imparentava con le tendenze sadiche dell'individuo, nelle quali pensava di non eccellere per niente) e sospirò sempre di ritirarsi dalla pratica medica, cui invece era obbligato per esigenze venali; il suo sogno era di dedicarsi tutto ai problemi storici e culturali. Anzi, a ventinove anni egli dubitava assai di potersi guadagnare da vivere facendo il medico, sentendosi inetto, imbarazzato, incapace e ignorante nei confronti dei pazienti che lo consultavano.
Non si trattava di timidezza: nel 1885, diagnosticò che l'amico Fleischl avrebbe avuto non più di sei mesi di vita; invece il disgraziato dovette subire le atroci conseguenze di una errata terapia per più di sei anni. L'anno dopo, il dottor Freud decise un piccolo intervento chirurgico su un noto attore: fiasco. Nel 1887, curava la nevrosi con l'ipnosi, soddisfatto di esser ammirato come un mago. Invano l'autorevole medico tedesco Theodor Meynert (1833-1892) aveva pubblicamente evidenziato gravi controindicazioni di questa terapia: solo nel 1891 Freud si rese conto di aver insistito in una strada completamente sbagliata, probabilmente sedotto dalle bugie con cui i pazienti stessi, fingendo l'ipnosi, lo lusingavano.
Si resta sorpresi dei suoi incongruenti consigli in tema di pratico allevamento dei bambini, della sua tolleranza nei riguardi di uno dei figli che faceva il dongiovanni delle pazienti durante il periodo in cui queste venivano analizzate nello studio del padre, per non dire del fatto che egli non si trattenne dall'analizzare, contro le stesse elementari indicazioni da lui date perentoriamente agli altri analisti, coinquilini e perfino coppie sposate, nonostante che egli ben sapesse l'inopportunità che i pazienti parlassero fra loro dell'analisi durante a stessa. Questo, però, è il meno.
Il dottor Freud - che tra gli intimi chiamava i suoi pazienti «pazzerelli» - non si trattenne dal pubblicare i particolari intimi e perversi della vita sessuale di una sua paziente senza alcun permesso della medesima: la decisione parve gravemente scorretta anche in ragione della sua innegabile imprudenza. Non può, inoltre, non destare meraviglia la notizia che il dottor Freud abbia decisamente escluso dal trattamento psicanalitico gli psicotici da lui allontanati come irrecuperabili e incurabili e sprezzantemente messi sullo stesso piano dei delinquenti, comportamento che in un terapeuta di professione ci sembra semplicemente abnorme.
Siamo anche costretti a dare rilievo ad un altro comportamento gravemente irresponsabile, riguardante l'uso terapeutico della cocaina. Il dottor Freud da l'impressione di esprimersi in maniera contorta quando spiega di aver chiesto e ottenuto questa droga spintovi da «un interesse marginale sebbene profondo». Ciò accadde nel 1884, quando aveva l'età di ventotto anni. Gli effetti eccitanti della cocaina erano noti e il patologo italiano Paolo Mantegazza (1831-1910) ne aveva autorevolmente sostenuto l'uso terapeutico.
Freud sperimentò, poco eroicamente, su se stesso l'effetto di un ventesimo di grammo della droga e, poco prudentemente, se ne infatuò a tal punto da distribuirla a tutti senza chiedersi se, per caso, vi potessero essere delle controindicazioni. La dette subito all'amico del cuore, il morfinomane Fleischl, per liberarlo dalla sua tossicomania; la dette alla sua Martha, per colorirle le guance; alle proprie sorelle, per tenerle su con la vita; e a colleghi amici, naturalmente, esortandoli a darla ai pazienti.
Stese sull'argomento un saggio euforico aggiungendo, en passant, che c'erano da aspettarsi eventuali applicazioni anestetiche. In realtà, Freud non vi credeva molto, ma un suo collega provò e trovò questa applicazione veramente terapeutica. Nel 1885, si trovarono varie altre applicazioni terapeutiche della cocaina. Fra gli altri un ricercatore americano la iniettò nei nervi aprendo la via alla possibilità di provocare il blocco nervoso per scopi chirurgici. Freud non batté queste piste, ma utilizzando arbitrariamente l'ago ipodermico inventato dal suo direttore ospedaliero, il Dr. Scholz, praticava iniezioni sottocutanee di cocaina, senza nessun utile risultato, per svezzare dalla morfina e per curare la nevralgia del trigemino! Ecco cosa si legge in una sua conferenza del 1885:
L'anno dopo, mentre era universalmente riconosciuto che la cocaina poteva portare a gravi conseguenze, il dottor Freud prescrisse una forte dose del farmaco ad un suo paziente che ne morì. Nel 1887, ammise che era indispensabile astenersi dal prescrivere iniezioni sottocutanee di cocaina in ogni malattia interna o nervosa, pratica nefasta, derivata, diceva, dall'ago ipodermico di Scholz!
Più tardi negò anche di averla mai consigliata. Freud continuò a servirsi della cocaina, ma nel 1916 ammoniva Ferenczi che, presa in eccesso, poteva produrre sintomi paranoidi. Molti anni dopo, Freud dovette smetterne su di sé l'applicazione perché si accorse che provocava condizioni precancerose. Mentre si rendeva conto dei danni che l'uso e l'abuso di questa droga comportava, prendeva altresì atto di quanto fosse pericoloso sottoporre a trattamento psicanalitico un cocainomane. Se nella divulgazione del farmaco magico Freud dimostrò scarso senso di responsabilità, non maggiore ne adoperò nel divulgare, anche attraverso i mass media, la psicanalisi. Sulla base di questi dati non si potrebbe certo affermare che Freud si sia dimostrato un medico responsabile.
Umanità di Freud
Anche sul senso di umanità di Freud si devono avanzare gravi riserve, come risulta, del resto, evidente da quanto abbiamo già riferito. La sua regola era di scaricare i fastidi senza curarsi del peso sproporzionato che ne ricadeva sulle spalle del prossimo. Mettersi in tasca la chiave del portone quando rincasava di notte? No! Si alzi piuttosto il portiere! Accollarsi il peso di recuperare Reich che versava nell'estremo pericolo di precipitare in una gravissima depressione? Il professore aveva cose più importanti di cui preoccuparsi. «Non ho mai avuto il desiderio di consolare l'umanità sofferente»: sono sue parole.
Uno dei suoi primi seguaci fu Herbert Silberer (1882-1923). Ebbene, il rapporto tra lui e Freud degenerò e dall'amicizia originaria si rovesciò in un'inimicizia che nell'animo di Freud troviamo armata di una ostilità che ignora ogni riguardo. Silberer si uccise, tanto se ne offese.
Paul Roazen (1936-2005), storico della psicanalsi, ha spiegato come Freud si sia lavato le mani della fastidiosa malattia di Tausk 17. La vicenda getta qualche lampo di luce sul volto spirituale di Freud. Riassumiamola. L'ebreo Victor Tausk era stato tra i primi seguaci di Freud. Era certamente un disgraziato, per la sua pesante eredità familiare, per il suo disprezzo della religione, per l'infelicità del suo matrimonio e la sua incapacità di stabilire un rapporto stabile con una donna. Nel 1904, iniziò la sua carriera di avvocato, ma la cambiò per quella di bohémien.
Poi si mise a fare il giornalista, ma si esaurì: si manifestò così la sua predisposizione a regressioni psicopatologiche con forti sottolineature pessimistiche. Proprio a questo punto egli prese contatti con Freud che lo sollecitò a salire sulla barca psicanalitica. Tausk fu sempre fedele a Freud sostenendolo fortemente prima contro Adler, poi contro Jung. Era considerato geniale, creativo, capace di farsi ascoltare ai vertici della psichiatria ufficiale... ma Freud non poteva sopportare che Tausk potesse avere un'idea prima di lui, diceva che gliela rubava e che lo anticipava fastidiosamente e il rapporto si guastò.
Si intorpidì, anche, d'un sospetto erotismo (triangolo Freud-Lou-Tausk) e di altre tensioni esterne in cui Tausk si era lasciato coinvolgere. Ad un certo punto, la crisi parve a Tausk senza uscita se Freud non lo avesse aiutato e, pensando che il maestro si ricordasse di qualche suo servigio, chiese umilmente ciò che un tempo aveva rifiutato, di essere cioè analizzato dallo stesso Freud. Forse per rivincita o per evitare un fastidio troppo grosso, Freud, ritenendo che Tausk fosse ormai inutilizzabile, rifiutò la proposta, giustificandosi col dire che Tausk lo inibiva.
Replicò, anzi, con una controproposta che esponeva uno dei più rappresentativi componenti della Società Psicanalitica ad un'umiliazione certa e a un rischio probabile. Freud aveva allora in analisi la novizia Helene Deutsch (di cui abbiamo già fatto cenno). Propose, dunque, che il maturo e sperimentato... Tausk si sottoponesse all'analisi guidato dalla Deutsch. Forse perché era quella l'ultima tavola cui il naufrago poteva appoggiarsi o perché Tausk era consapevole del torbido triangolo di travasi che così si sarebbe formato, il poveretto accettò.
Freud manovrava la Deutsch, questa drenava Tausk, quest'ultimo cominciò a dare libero sfogo a tutto ciò che gli ribolliva dentro anche su Freud, il quale, giunto il momento in cui la misura gli parve colma, senza minimamente preoccuparsi di controllare le reazioni del malato, ordinò ad Helene Deutsch di interrompere bruscamente il rapporto analitico, buttando Tausk alla deriva. Proponendo quel rapporto così speciale Freud sapeva di suscitare ampie attese in una situazione psicologicamente drammatica.
Interrompendo personalmente quel rapporto a tre sapeva altrettanto bene di provocare una delusione a cui non offriva alcun rimedio. Tausk ne ricevette un colpo micidiale. Quando portarono a Freud l'annuncio del suicidio di Tausk, egli (aveva 63 anni) restò del tutto impassibile. Quando Johann Jakob Honegger (1825-1896), amico e collaboratore di Jung, si uccise, Jung si pose il problema della sua responsabilità, ma Freud non fece così nel caso Tausk.
La Deutsch scaricò la sua responsabilità su Freud, il quale lo assolse pienamente. Informando poi la Lou della triste fine di Tausk, il professore aggiunse di non sentirne affatto la mancanza, essendo Tausk divenuto inutile e dannoso. «Lo avrei lasciato perdere già da tempo». Assumono così tutto il loro giusto rilievo queste altre parole di Freud:
Non siamo in grado di offrire una spiegazione di tanto cinismo morale. Certamente esso è il risultato di una lunga ed incisiva esperienza, com'è, mutatis mutandis, della carità dei santi. Nel caso di questi ultimi, la Chiesa da molta importanza alla scuola ascetica in cui i suoi campioni si sono formati. Non sappiamo se la Società Psicanalitica usi analoghi criteri, però Paul Federn (1870-1950), dopo il fatto di Tausk, ebbe a scrivere:
Anche lui si uccise.
Potenza intellettuale
L'influsso della predizione del poeta ciarlatano lo aveva orientato verso la facoltà di giurisprudenza, ma il fascino del darwinismo prevalse e così Freud varcò le soglie di Medicina. Provvidenzialmente, perché l'unico esame in cui il giovane Freud fu bocciato, nel suo curriculum universitario, fu proprio quello di medicina legale. Durante gli studi parve concentrarsi sulla biologia e la zoologia, ma egli stesso ammise di essersi applicato con scarsa diligenza, ciò che spiega l'irregolarità dei suoi studi e il ritardo di tre anni nel concludere l'iter universitario. Spiega Freud:
Eppure aveva un'eccellente memoria visiva, grazie alla quale era in grado di dare risposte automatiche - ci informa - «identiche alle frasi dei libri che avevo sfogliato appena una volta». Com'è noto, Freud nutrì ambizioni di carriera universitaria che restarono deluse. Nel 1881, cominciò a fare il «dimostratore» nel laboratorio di Brücke. Avrebbe dovuto passare «assistente», poi «aiuto», infine «professore».
Invece l'anno dopo Brücke lo consigliò di abbandonare la carriera teorica. Perché? Non certo per scarsa simpatia, perché se Freud ottenne la libera docenza in Neuropatologia e la borsa di studio per Parigi, ciò fu solo in grazia delle raccomandazioni e della influenza personale di Brücke. Egli dice che Brücke gli dette quel «consiglio» in considerazione delle sue ristrettezze economiche. Può darsi. Però quando Meynert gli offrì l'insegnamento, Freud rifiutò.
Più tardi, come abbiamo già accennato, ottenne, per vie traverse, la nomina a professore ordinario, però senza cattedra e quindi senza responsabilità di insegnamento. Troviamo scritto da lui: «Non sarei adatto al professorato. Ho sempre in me qualcosa di selvaggio». In che senso la mente di Freud poteva dirsi «selvaggia»? Non era forse capace di aprirsi una via di affinamento intellettuale e di progresso scientifico?
Fece ricerche sull'analisi dei gas senza alcun successo. Le sue ricerche anatomiche sul tessuto nervoso erano elaborazioni di suggerimenti altrui. Quando fu alla soglia di verificare l'applicazione della cocaina come anestetico nella chirurgia oculistica si lasciò «sviare dall'incredulità» di chi gli stava attorno. Jones dice che, giunto alla soglia della teoria del neurone, «non osò spingere il suo pensiero fino alle logiche e non lontane conclusioni». Esercitando la docenza di Neuropatologia, conferma che non capiva niente di nevrosi (1884).
Le sue ricerche sull'afasia (1891) avanzavano, sì, un'ipotesi di alterazione funzionale, ma sempre in riferimento ad una zona del cervello più o meno gravemente lesa. Questo suo studio non fu mai citato e dopo nove anni ne erano state vendute solo 257 copie. Anche nel suo studio sulla paralisi infantile (1891) non vi è la minima allusione ad un'ipotesi esplicativa psicologica di questo disturbo. Tra il 1892 e il 1895 Freud fece delle ricerche psicologiche volte a trovare un metodo per sondare l'inconscio.
Nel 1895 lo indicava come il «metodo catartico di Breuer». In realtà, a Breuer l'aveva suggerito una paziente. Ad ogni buon conto, esso somigliava ancora troppo al metodo ipnotico per apparire proprio originale. Senza contare il suggerimento più o meno indiretto che a Freud era venuto da uno dei suoi autori preferiti - Karl Ludwig Boerne (1786-1837) - e, forse, da una certa tradizione ebraica. Gli studi sull'isterismo del 1895 (che segnano la nascita della psicanalisi), scritti con Breuer, non furono apprezzati (dopo tredici anni ne erano state vendute solo 326 copie).
Nel 1896, (aveva trent'anni) egli avanzò ipotesi un po' singolari sulla causa dell'isterismo: un'esperienza sessuale passiva (cioè una seduzione violenta) anteriore alla pubertà (generalmente all'età di tre-quattro anni). Questo, per lui, era il punto fondamentale di tutta la Neuropatologia. Dopo due anni, però, egli stesso l'aveva abbandonato, mentre i suoi colleghi l'avevano giudicato subito favolistico. Pubblicò L'interpretazione dei sogni nel 1900. Ne vendette poche copie (600 in otto anni) e non ottenne alcuna recensione favorevole. Tuttavia, è di qui che comincia la sua opera più originale. Però non va sottovalutato quel che più tardi Freud ebbe a scrivere:
A questo punto ci sembra di poter notare almeno quattro deficienze nell'attività intellettuale di Freud. La prima è la sua scarsa disponibilità alla discussione scientifica. La seconda è la sua scarsa disponibilità alla precisa quantificazione dei fenomeni, per cui egli ebbe a riconoscere:
La terza è la sua trascuratezza a verificare prudentemente le ipotesi fantastiche. Lui si scusava con l'asserire: «Sarebbe un errore credere che la scienza sia costituita solo da tesi rigorosamente dimostrate», ma con questo asserto dimostrava di trascurare ciò che non è assolutamente trascurabile, ossia la dimostrazione (si ricordi l'esempio di Stekel). La quarta è a sua inclinazione all'unilateralità, ciò che fu esplicitamente riconosciuto da Ferenczi e da Jones.
Freud ammise che il suo contributo era unilaterale, ma sostenne che «questa unilateralità era necessaria al fine di scoprire ciò che rimane celato agli altri». Ciò dicendo, però, Freud veniva ad esaltare l'originalità della ricerca, trascurando il pericolo della montatura e dell'arzigogolo.
Siamo pertanto del parere che il dottor Sigmund Freud non esagerasse nel «lamentarsi di non aver ricevuto una migliore dotazione intellettuale», nell'avvertire l'inadeguatezza delle sue soluzioni, nel prevedere che le leggi da lui formulate sarebbero state abbandonate, nel negare di essere uno scienziato, un osservatore, uno sperimentatore, un pensatore; nel confessare, infine, di essere solo un avventuriero (Jones). Non esagerava.
APPENDICE FREUD E LA KABBALAH 18
Nell'agosto 1916, la nota rivista Comunità ha diffuso un saggio scritto nel 1958 dello psicologo americano David Bakan (1921-2004) intitolato Sigmund Freud and the Jewish Mystical Tradition («Sigmund Freud e la tradizione mistica ebraica») nel quale, meglio che nel libro precitato, l'insospettabile Autore mette in risalto la matrice cabalistica della psicanalisi. La lettura di questo saggio costituisce un'ottima conferma dell'ascientificità dell'indagine freudiana.
Il nostro obiettivo, qui, è solo di ridurre all'essenziale il discorso di Bakan. La legge (Toràh): tutta l'attenzione dell'ebreo della diaspora è fissa su questo sole, identificato prima nel Messia ma, poi, perduta la speranza di questo, semplicemente nel zaddik (il sant'uomo, l'uomo di Dio) e, alla fine, in accordo con la concezione individualistico-democratica dell'età moderna, in ogni individuo che è unica legge a se stesso.
Freud, spiega Bakan, operò questa trasposizione e la esaltò nel caso clinico decisivo nel quale egli riconobbe la prova della sua «trovata» psicanalitica, il caso di Dora. Il nome di Dora sta per quello di Toràh: la donna che portava quel nome ha rivelato a Freud la legge segreta che, nel profondo dell'individuo, determina ogni comportamento, la legge erotica dell'inconscio, represso nelle sue fatali tendenze e decifrato attraverso specialissime vie.
La trasposizione di questo nome (da Toràh in Dora) era necessaria per non far capire ai goym (i non-ebrei) l'origine della nuova sapienza. La Legge non poteva apparire col suo vero nome (ebraico) e perciò bisognava cercare «il nome di una persona che non poteva conservare il suo», e Freud lo cercò: «Quando lo cercai... non me ne venne in mente nessun altro che Dora». Con indubbia competenza Bakan dimostra che la Kabbalah non solo usa immagini sessuali per simboleggiare la conoscenza 19, ma ritiene che la conoscenza sia un atto erotico:
Ma la legge del conoscere segue la legge dell'essere: la conoscenza è erotica e sessuale perché la realtà, nella sua più intima essenza, è proprio di tal natura. E Bakan precisa:
La quale insegna che la nona emanazione mistica della divinità (Yesod) significa, nominalmente, «segreto» ed è collocata negli organi genitali di Dio, perché, appunto, «la sessualità è il fondamento segreto di tutte le cose».
Bakan ha ragione: il debito di Freud (e della cosiddetta «scienza» psicanalitica) verso la Kabbalah è evidente. Questa evidenza, del resto, si fa più chiara, se esaminiamo, guidati da Bakan, il concetto freudiano dell'inconscio e della sua via regale d'accesso, che è il sogno. Per Bakan non c'è dubbio: Freud parla come il grande cabalista Abraham ben Samuel Abulafia (1240-1291) quando allude all'inconscio come centro quasi divino della vita mentale in contrapposizione alla «nostra povera coscienza» 21.
Sopra: antico ritratto del rabbino cabalista Abraham ben Samuel Abulafia.
Così, conforme alla Kabbalah, il fondamento è il sesso e l'inconscio è il suo autentico profeta; ma appresa alla scuola della Kabbalah è anche l'interpretazione di questa importantissima base. Bakan, premesso che le chiavi «freudiane» per interpretare i sogni si trovano nel Talmud, offre alla considerazione del lettore i due caposaldi della dottrina del Berakhot (uno degli scritti del Talmud, appunto):
Sopra: la prima pagina del trattato talmudico Berakhot (che in ebraico significa «benedizioni»).
Effettivamente Bakan non ha torto: Freud si appropriò di questi principî, così lontani, anzi alieni, da una seria ricerca scientifica, così dimostrativi dell'ascientificità della psicanalisi e del suo metodo di interpretazione.
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